La nonviolenza, una scelta di coraggio

Ricorre oggi l’anniversario della morte, il 19 ottobre del 1968, di Aldo Capitini, fondatore del Movimento Nonviolento e ideatore della Marcia della Pace Perugia-Assisi.

In un periodo di guerra come quello che stiamo vivendo, definirsi nonviolenti appare a tanti come una scelta di debolezza, se non addirittura di codardia.

Eppure la nonviolenza nella storia, da Gandhi a Martin Luther King, è stata spesso usata come mezzo di di lotta politica che prevede l’utilizzo di strumenti attivi come la non collaborazione e il boicottaggio.

Questa scelta, quindi, non è assimilabile in alcun modo né all’arrendevolezza, né all’indifferenza, ma è una forma di contrasto continuo e duraturo contro tutte le ingiustizie, mettendo al centro la vita e la dignità di tutte le persone.

Sì ma, alla fine, chi gioca in attacco?

“Il dubbio è l’inizio della conoscenza” CARTESIO

Ho provato a digitare su un motore di ricerca la parola “dubbio” e, dei primi dieci risultati, almeno cinque erano relativi…alle formazioni delle squadre di calcio: in pratica sembra che i dubbi più importanti della settimana siano sul fatto se la Roma riuscirà a recuperare Abraham per il suo attacco o se dovrà schierare Belotti.

Eppure c’è la guerra, c’è una situazione economica drammatica, ci sono le bollette alle stelle: tutti, e molti altri argomenti, sui quali sarebbe giusto e anche molto sano riflettere sulle ricette migliori da mettere in campo. Fosse solo per il fatto che, manifestando una sana incertezza, si trasmetterebbe un po’ di empatia alla tanta gente confusa e intimorita e, soprattutto, avremmo tutti un motivo in più per approfondire, per conoscere meglio. Ma su questi temi evidentemente, basta leggere i giornali, ma ci si può anche accontentare dei social, i nostri politici non hanno nessun tentennamento, solo certezze granitiche.

Forse è per questo che la guerra sembra prendere ancora più campo, giorno dopo giorno, il mondo continua ad essere pieno di disuguaglianze e molte famiglie non sanno come fare a superare il mese di ottobre per riuscire a pagare il gas.

Almeno se il dubbio di formazione avesse riguardato il portiere, saremmo stati un po’ più sicuri di riuscire a difenderci.

Dalla riservatezza alla solitudine

Della riservatezza abbiamo fatto un diritto, il famoso diritto alla privacy; per certi aspetti giustamente, ci mancherebbe. Eppure quest’obbligo, questo diritto alla riservatezza, ci ha portati spesso a non sapere niente dell’altro e ad avere quasi una reticenza nel parlare di noi: da una parte ci ha condotti a vivere da soli le nostre difficoltà, dall’altro ci ha come creato un alibi su quelle degli altri.

Sarebbe bello se il contrario di ‘riservatezza’ non fosse ‘gossip’, ma ‘condivisione’, ‘solidarietà’. Perché sono tanti quelli che non amano mettere in piazza i propri problemi, sono davvero in pochi quelli che amano trovarsi da soli nel momento del bisogno.

Pensieri intorno al ‘progresso’

Cos’è il progresso? Davvero è solo avere cose in più o soddisfare bisogni spesso appositamente creati per “vendere”, più o meno letteralmente, quelle stesse determinate cose?

Il progresso, se giustamente inteso, dovrebbe portarci ad un miglioramento delle condizioni e della qualità della vita. Ma anche qui: della vita di chi? Di tutti o solo di alcuni privilegiati? Perchè possiamo fare tutte le discussioni del mondo, ma credo sia chiaro a tutti che una parte minoritaria della popolazione mondiale vive in condizioni di benessere anche, o soprattutto, perchè utilizza risorse di cui viene molto spesso derubata quella parte di popolazione che è costretta a vivere in una condizione di povertà o di assoluta indigenza.

Non importa andare dall’altra parte del mondo per averne la prova: i rider che per pochi spiccioli sfidano il traffico, il maltempo e in certi casi la morte per portarci il cibo direttamente in casa sono la dimostrazione di una società malata, nella quale la ricerca di comodità ha portato a chiudere gli occhi anche di fronte allo sfruttamento più evidente, pur di averla garantita.

Uscendo da casa nostra, ma facendo un altro esempio che ci riguarda direttamente in modo drammatico: un mondo che sprofonda in maniera così generale verso la guerra, dall’Ucraina alle due Coree per proseguire in molti Paesi africani, e in non pochi casi verso l’incubo dell’utilizzo delle armi atomiche, quel mondo lì in progresso o in un terribile regresso? E, se è in regresso, perchè?

Ecco, io credo che al di là delle momentanee sconfitte o saltuarie vittorie elettorali, un partito, un movimento, un’associazione o più semplicemente un gruppo di persone che voglia minimamente definirsi progressista debba assolutamente confrontarsi con queste domande. Chiedersi cos’è il progresso, se si può definire tale una situazione che condanna alla sofferenza la maggior parte dell’umanità, se questo può in qualche modo disgiungersi dalla giustizia sociale o se invece non possa fare altro che procederci a fianco; se progresso è la comodità di pochi o la dignità di tutti.

Queste e molte altre sono domande ineludibili, se non vogliamo perdere il senso delle parole e dei valori con i quali amiamo descriverci.

Al mercato

Bancarelle, utili approdi alla ricerca dell’ombra e di un riparo dal sole e dall’afa.

Pezzi di carne in vendita.

Una bancarella ordinata di detersivi.

Bigiotteria.

Il sole e l’ombra.

Pozzanghere.

Manghi disposti a piramide, con i loro colori vivaci: dal giallo al verde, al viola.

Sguardi addosso: curiosi, sorridenti, talvolta afosi, mai astiosi.

Delle donne: come state? Venite dalla Francia? Risate al nostro capire ben poco il wolof.

Sosta ad un banco della verdura, compriamo patate e cipolle.

Una foto e via, di nuovo fuori, usciamo. Alla luce, sole e caldo. Il mercato offriva un riparo.

Accolti in un angolo del mondo

Cacuaco è una piccola città dell’Angola, situata molto vicino alla capitale Luanda, sulle rive dell’oceano Atlantico. Ho vissuto un mese in quella piccola municipalità nell’estate del 2002.

In quel momento la città era ‘invasa’ di sfollati provenienti dalle zone interne del Paese, sfuggiti dagli orrori della guerra, finita appena tre mesi prima del nostro arrivo.

A Cacuaco in quel periodo c’era una notevole carenza di acqua e la poca disponibile doveva essere filtrata prima di poterla bere. Quella invece che doveva servirci per lavarci o per altre necessità veniva tirata su da un pozzo posto ai margini della missione salesiana che ci ospitava. Nella sostanza l’acqua che bevevamo, pur ingeribile, manteneva il sapore del filtro, mentre quella che usavamo per altri scopi, oltre a dover essere utilizzata con cura per non sprecarla, era senz’altro di scarsa qualità.

Cacuaco, insomma, nell’estate del 2002, non era per niente un luogo ospitale.

Eppure, ripensando oggi a quelle settimane, posso dire con certezza che poche volte in vita mia ho sperimentato come in quel periodo il piacere di essere accolto, ben voluto, direi quasi desiderato.

E questo non solo da parte delle suore che ci ospitavano, che ci hanno messo a disposizione, con semplicità e amore, tutto quel poco che avevano a disposizione. Ma anche da parte degli abitanti del posto, umili e dignitosi, che ci hanno accompagnato e reso più semplice il nostro inserimento nella loro comunità.

Sì, Cacuaco è stato per me l’esempio concreto di quanto un angolo di mondo così lontano dai nostri canoni possa tenerti stretto in un abbraccio ospitale.

Bontà e bellezza

Prima la pandemia, adesso la guerra, così vicina che ci sembra di toccarla e che possa invadere ancora di più le nostre vite da un momento all’altro. Queste due esperienze creano una grande preoccupazione, nuova perché ci sembra di non avere gli strumenti adatti per poterla affrontare e perché non ne vediamo una fine definita. A me, genitore, oltre a quella individuale, si aggiunge anche la preoccupazione su quale mondo, su quale futuro saremo in grado di lasciare ai miei figli e ai giovani che, come loro, si affacciano alla vita. Abbiamo avuto la fortuna, in questa parte di mondo, di vivere decenni di pace e di sviluppo economico e sociale, pur fra naturali alti e bassi. Abbiamo vissuto la guerra come un’esperienza lontana, figlia del ricordo dei nostri nonni e di echi lontani che sembrava quasi ovvio che non potessero avvicinarsi fino a noi. Anche quando i conflitti erano davanti “a casa nostra”, prima nei Balcani, poi in Libia, sembrava che le nostre democrazie potessero proteggerci da un coinvolgimento diretto. Eppure anche in quelle guerre i nostri Paesi e il nostro continente aveva un ruolo e una responsabilità, più o meno diretta. Questo ritenerci lontani dai conflitti ci ha spinti a vedere nei nostri fratelli che cercavano rifugio nelle nostre terre come degli intrusi che non meritavano la nostra accoglienza: alla fine la loro presenza incrinava il nostro quieto vivere, ci metteva di fronte una realtà che preferivamo non vedere.

Adesso che abbiamo provato sulla nostra pelle come un virus invisibile se non al microscopio può sconvolgere totalmente le nostre vite e come una guerra, quasi da un momento all’altro, può diventare parte ingombrante e disastrosa del nostro quotidiano, viviamo uno stato di frustrazione e di impotenza. Nell’uno e nell’altro caso ciò che dovrebbe e potrebbe essere fatto ci sembra più grande di noi.

Cosa fare quando ci si sente impotenti e quando sembra che la sola, piccola goccia che possiamo dare evapori prima ancora di cadere nell’oceano? Possiamo farci da parte ed aspettare che passi la minaccia. Oppure continuare a dare quella goccia, consapevoli che è quello che dobbiamo fare, indipendentemente da quella che sarà la sua destinazione finale.

Per me quella goccia, in questo momento, è educarci ed educare alla bontà e alla bellezza. Alla bontà, così bistrattata negli anni scorsi da far nascere anche un neologismo appositamente creato con accezione negativa, “buonista”. In un periodo come questo invece la bontà è uno dei salvagenti più importanti per tornare finalmente in acque tranquille. Una bontà che guarda all’altro, al prossimo, come ad un fratello da aiutare, se è nel bisogno, e con il quale condividere ciò che abbiamo a disposizione. E poi alla bellezza, così importante in un mondo sempre più distrutta dall’azione dell’uomo. La bellezza del creato, ogni giorno più in pericolo. Ma anche quella dell’uomo, di ogni uomo, dei volti. E di ciò che l’uomo è in grado di creare.

Alla fine saranno proprio la bontà e la bellezza a farci rivedere la luce e a vincere l’odio e la distruzione insita in ogni guerra.

250 anni dopo

“Tutti gli esseri umani sono stati creati uguali e sono dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili, e tra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità.” Thomas Jefferson, 1776

La disuguaglianza non solo è ‘innaturale’, ma è la base delle più grandi ingiustizie e violazione dei diritti essenziali e inalienabili. Primo fra questi il diritto alla felicità. Non esiste felicità senza giustizia e dignità.

Sono passati 250 anni da questa bellissima affermazione, ma la sua attualità è rimasta intatta, così come la sua drammatica e sistematica non applicazione.

In direzione ostinata e contraria

La logica della guerra, con la sua retorica e drammaticità, riesce spesso ad offuscare la logica e le ragioni della pace.

Prendiamo il caso delle armi, l’incremento delle spese finalizzate alla loro produzione e la legittimità o meno del loro invio in Ucraina. Provando a leggere i termini del confronto su questi argomenti, si nota subito il fatto che coloro che sono a favore di un aumento degli armamenti pongono la loro convinzione come una verità assoluta e indiscutibile, pena essere subito schierati fra i sostenitori di Putin e della sua invasione. Siccome abbiamo a che fare con un terribile autocrate, con un pericoloso guerrafondaio e invasore, questa la loro argomentazione, dobbiamo necessariamente prepararci ad una strenua difesa e, nel frattempo, armare fino ai denti l’esercito ucraino. E’ ovvio che, come sempre succede, le ragioni di chi risponde semplificando il problema e portando soluzioni apparenti ma immediate sembrano subito come le più efficaci, quelle maggiormente in grado di risolvere la situazione. “Si vis pacem para bellum”, insomma, se vuoi la pace prepara la guerra, come già profetizzavano i latini, evidentemente a torto, se poi la pace su questo pianeta, perennemente armato fino ai denti, si è vista raramente e quasi sempre precaria.

Di fronte alla facilità dei proclami belligeranti, pieni di retorica e aiutati dalla reale drammaticità e precarietà della situazione, le posizioni di chi difende le ragioni della pace e della nonviolenza appaiono fragili, deboli, quasi inutili. E’ tremendamente difficile, in effetti, parlare di pace durante i bombardamenti, di disarmo quando vengono allertati i sistemi missilistici nucleari, di dialogo quando quella che appare ai nostri occhi è una discussione fra sordi.

Eppure io sono convinto che per chi per anni ha tentato di costruire percorsi di dialogo e di confronto, di non arrendersi alla logica della violenza come modalità di risoluzione di conflitti, sia proprio questo il tempo di non disunirsi, ma di provare con ancora più forza a mettere in campo le proprie idee, valori, proposte. E questo anche se sono minoritarie e poco udibili, anzi, proprio perchè sono minoritarie e difficili da ascoltare.

E’ in questa direzione ostinata e contraria che si è inserito oggi il discorso del Papa, quando ha duramente criticato la scelta di molti Paesi europei, Italia in testa, di aumentare la propria spese militare per far fronte alle emergenze in corso. “Una pazzia”, l’ha definita, con un ragionamento chiaro, limpido, forte che ha rimesso al centro le posizioni di chi non si arrende alla logica della guerra, ma che vuole provare a mettere in campo strategie diverse, scommettendo su ciò che oggi è improbabile ma che non possiamo perdere la speranza che possa realizzarsi.

E’ probabile che già da stasera le voci di chi vuole difendersi armandosi tornino dominanti e praticamente esclusive. Ma le parole di Francesco, ostinate e contrarie, ci hanno dato la conferma di quanto spesso il punto di vista della minoranza sia quello maggiormente e virtuosamente orientato al Bene Comune.

La pace fragile

La pace vegetale, come quella umana, è bellissima e grandiosa, ma fragile: ha bisogno di cura, di attenzione e di rispetto.

In giardino il susino è fiorito, avrebbe bisogno di essere potato, così mi ha consigliato un amico, ma anche quest’anno siamo arrivati tardi, la fioritura è arrivata troppo presto, rispetto a quando avrebbe dovuto, e il momento del taglio era già passato. Adesso non resta che aspettare e sperare che non arrivi una forte gelata primaverile che, come successe già lo scorso anno, brucerebbe i frutti, ancora troppo deboli per sopravvivere a sbalzi di temperature così importanti.

Lo stesso amico che mi ha consigliato la potatura, parlando della gelata dello scorso anno, ha cambiato la mia prospettiva di questa accadimento: il problema non è la gelata di marzo o dei primi di aprile, che è sempre stata piuttosto frequente, il problema, mi ha detto, è che le temperature primaverili iniziano i primi di febbraio, quando prima era già abbastanza se non nevicava. La fioritura delle piante, quindi, arriva troppo in anticipo e di conseguenza la gelata che fino a qualche anno fa non creava particolari problemi, può diventare devastante e definitiva.

E così il mio amico mi ha spiegato in poche parole che il cambiamento climatico è arrivato anche nel mio giardino, violandone in qualche modo la pace vegetale.

Per quanto riguarda la pace fra gli uomini la situazione è più o meno la stessa. Anche questa è meravigliosa e potente, ma fragile e ha bisogno delle stesse cure e attenzioni. Tante volte si sente dire in questi giorni che la pace è in pericolo e che il mondo rischia la guerra. Questo ragionamento è vero, in realtà, solo se si parla della possibilità di un conflitto mondiale. Perchè per il resto, purtroppo, sono ben pochi i luoghi del mondo che hanno conosciuto una pace duratura e in questi anni di guerre ce ne sono state a decine in ogni angolo del pianeta. La differenza che ci salta agli occhi in questi giorni non è tanto che la guerra si è avvicinata; del resto l’abbiamo avuta per anni in Libia, che è proprio davanti a noi, e non ci ha fatto molto effetto. La differenza sta nel fatto che oggi la guerra è vicina a noi dal punto di vista fisionomico, perchè coinvolge persone europee, nelle quali facciamo probabilmente meno fatica ad immedesimarsi fisicamente, e soprattutto perchè una delle parti in causa ha a disposizione armi nucleari che, per vicinanza geografica, potrebbe usare anche sul nostro continente.

Ecco quindi che in poche settimane abbiamo scoperto la fragilità della pace e quanto i conflitti mettono in discussione il nostro stile di vita e i nostri valori.

Vorrei, come tutti, che la guerra in Ucraina finisse il prima possibile con il suo enorme strascico di morte e di dolore. Ma vorrei anche che questo conflitto alle porte di casa ci facesse finalmente capire che la pace deve essere rafforzata sempre, anche quando è in pericolo in Paesi del mondo che non sapremmo collocare neanche sulla cartina geografica. Che crogiolarsi sul tenue calore di una pace precaria, ci espone alle intemperie di gelate improvvise, provenienti da altre zone nelle quali invece l’inverno della guerra è rigido e infinito.

La pace è fragile, solo proteggendola con cura e attenzione potrà venire fuori la sua maestosa bellezza.