Preso da un momento di sentimentalismo, probabilmente scaturito da questo periodo festivo, il governatore della Liguria, Giovanni Toti, ieri ha postato le immagini dei nuovi nati nelle province della sua Regione dando loro un cordiale benvenuto. Finalmente un bel messaggio da parte del governatore, dopo le incredibili gaffe delle scorse settimane, come quella sugli anziani ‘non indispensabili’, riferita ai tanti over 70 morti a causa del covid-19.
Un benvenuto ai nuovi ‘arrivati’, che però non è passato inosservato al capogruppo della Lega in consiglio regionale, il quale ha prontamente ribadito che “non si può definire nè ligure nè italiano chi nasce sul territorio regionale o nazionale da genitori stranieri.” Una frase che ha suscitato polemiche ma che purtroppo rappresenta la realtà dei fatti, oggi, nel nostro Paese.
Nonostante l’impegno di tante persone, movimenti, associazioni, si pensi per esempio alla campagna “L’Italia sono anch’io”, i nostri parlamentari non sono mai riusciti a trovare i numeri sufficienti, all’interno dell’assemblea legislativa, per approvare un cambiamento normativo che garantisse la cittadinanza ai bambini nati da genitori stranieri residenti in Italia da un determinato periodo di tempo.
Ad oggi, quindi, il consigliere regionale Stefano Mai, questo il nome del capogruppo della Lega nell’assemblea ligure, ha tristemente ragione. C’è da augurarsi, ma mi permetto di avere qualche dubbio a riguardo, che la polemica che la sua affermazione ha provocato riesca a riportare al centro del dibattito politico un tema così importante.
Personalmente continuo a pensare che il riconoscimento della cittadinanza a chi nasce in Italia da genitori stranieri che risiedono da tempo nel nostro Paese rappresenti un passo fondamentale per la crescita serena di questi bambini in condizioni di uguaglianza rispetto ai loro coetanei. Tale riconoscimento, fra l’altro, costituirebbe anche l’antidoto migliore per contrastare pericolose derive razziste e quella sensazione di frustrazione e di isolamento che può portare alcuni giovani, una volta cresciuti, a sentirsi esclusi da qualsiasi percorso di inclusione e a coltivare, nelle peggiori situazioni, un sentimento di rabbia e di rancore nei confronti di una società che, ai loro occhi, li ha messi ai margini.
Al capogruppo Mai, che parla della necessità di “difendere le nostre tradizioni e la nostra identità“, vorrei chiedere a quali si riferisce, visto che io, per esempio, italiano per tutto l’albero genealogico, mi sento parecchio lontano dalle tradizioni e dall’identità del leghista medio.
Ammesso che non si riferisca alle varie ampolle contenenti l’acqua del Po di lontana leghista memoria, che ormai, fortunatamente, incontrano le simpatie di qualche buontempone, vorrei tranquillizzare Mai dicendogli che l’identità di un popolo si misura spesso con la sua capacità di confrontarla con quella degli altri e che, restando all’argomento, sarà molto più semplice mostrare le nostre tradizioni e la nostra identità ad un bambino facendolo sentire parte di una comunità che tenendolo forzatamente e inspiegabilmente fuori da questa.
Quello della cittadinanza è un tema troppo importante e complesso per banalizzarlo con slogan, frasi fatte e tutto il resto dell’armamentario populista. La cittadinanza si concretizza con il pieno riconoscimento dei diritti civili e politici: credo sia giunto il momento, e a dire la verità penso che sia giunto da tempo, per fare finalmente un dibattito libero e aperto su quali siano i requisiti che una persona deve osservare per poterne godere. Sarebbe forse l’occasione nella quale politici come il capogruppo Mai ci potrebbero spiegare come mai un bambino nato in Italia e che qui crescerà, studierà e affronterà la propria vita non può ambire al pieno riconoscimento dei propri diritti.