Mancanza

“Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto nei sei pieno?

MARIO LUZI

I primi tempi del mio lavoro come operatore nei centri di accoglienza per migranti, mi meravigliavo, spesso anche con un certo fastidio, che le persone accolte si lamentassero in continuazione di non aver niente da fare, un lavoro, un’occupazione, ma che poi, nello stesso tempo, passassero buona parte del loro tempo sdraiati sul letto o a girellare nel piazzale antistante la struttura di accoglienza.

E’ stato solo con il passare dei mesi e con l’approfondimento della loro conoscenza che ho capito che la loro, prima ancora che di lavoro, di relazioni, di autonomia, era soprattutto una mancanza di senso, di un motivo reale per vivere quel determinato tempo in quel determinato luogo. Nessuno di loro aveva scelto di venire a vivere a Empoli, o nessuno dei loro compagni di camera, come prima non avevano scelto i propri compagni di viaggio. Il loro essere in quel luogo in quel momento era solo una lontana conseguenza della loro decisione iniziale di partire dal loro paese di nascita e soprattutto l’esito di una serie di casualità. Ecco quindi che l’obiettivo del nostro lavoro, una volta acquisita questa consapevolezza, diventava non tanto e non solo quello di aiutarli ad acquisire una formazione specifica, ad apprendere la lingua italiana ed eventualmente a trovare un lavoro, ma soprattutto scoprire e definire insieme il senso del loro essere qui.

Nel libro Memorie di una Geisha c’è una frase molto bella, della quale sono riuscito a comprendere bene il senso solo in questi mesi, che dice: “Al tempio c’è una poesia intitolata La Mancanza, incisa sulla pietra. Ci sono tre parole, ma il poeta le ha cancellate. Non si può leggere La Mancanza, soltanto avvertirla.”

In questo anno, ormai, di limitazione della libertà, di perdita di antiche abitudini radicate e di molte relazioni sociali, di distanziamento forzato, di tempo abbondante, ma spesso inutile, a disposizione ho capito finalmente il significato profondo di quella assenza di senso che avevo solo intravisto nei ragazzi con i quali avevo lavorato.

E’ una mancanza che fa perdere i punti di riferimento, che fa sperimentare un senso forte di inutilità e di precarietà, che fa capire quanto l’uomo sia definito come essere umano solo all’interno di una comunità che si riconosce e lo riconosce come tale.

Purtroppo ho abbondantemente superato la fase nella quale anche io ho pensato che da questa crisi saremmo potuti uscire migliori, perchè l’esperienza di questi mesi ha in non pochi casi dimostrato il contrario.

Sono però ancora dell’idea che possiamo in qualche modo utilizzare questo periodo per acquisire qualche anticorpo che ci consenta non solo di riempire questa insufficienza di senso, ma anche di saper vedere e riempire anche quella degli altri che ci vivono intorno, provando a testimoniare vicinanza e un po’ di calore.

E in questo senso mi colpiscono sempre molto le parole di Papa Francesco, così semplici da sembrare quasi banali ad una prima lettura, ma che poi diventano incredibilmente operative, non perdendo la loro semplicità, quando si provano a mettere in pratica. Nel messaggio pubblicato ieri per la 55° Giornata mondiale per le comunicazioni sociali, il papa ha sottolineato con forza l’importanza di andare a vedere con i propri occhi le varie situazioni che avvengono vicino o lontano da noi, per provare ad incidere personalmente nel loro cambiamento. Il messaggio è chiaramente rivolto principalmente ai giornalisti, ma è riferibile ad ognuno di noi: andare a vedere con i propri occhi richiede la fatica di mettersi in cammino e di non credere soltanto a quanto ci viene raccontato, di essere disponibile a modificare la propria idea iniziale, ma soprattutto di sentire la responsabilità, una volta vista la situazione, di testimoniarla agli altri e di assumere un impegno personale al suo cambiamento. Quante situazione di difficoltà, di disagio, economico, sociale, spirituale, morale ci sono vicino a noi? Ebbene, per riempire quella mancanza di senso, che ci fa sentire inutili e colmare quella degli altri, la strada è quella di non voltare la testa dall’altra parte, adesso anche con l’alibi della pandemia, ma di farsi carico, di incontrare quelle situazioni, di essere testimoni di prossimità e protagonisti di un cambiamento.

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