Il medico. Che non ho potuto fare perché tanti anni fa non superai l’esame di ammissione all’università. È una professione che ammiro perché dà la possibilità di fronteggiare la malattia e la morte con la speranza di guarire dalla prima e di allontanare il più possibile la seconda.
Il magistrato. Che non ho fatto perché mi sono laureato in giurisprudenza troppo tardi per poter proseguire ancora in altri anni di studio. Ammiro questa professione perché porta con sé l’idea che un pezzo di giustizia si possa vivere anche in questa vita.
L’insegnante. Che non ho fatto per varie circostanze e che forse oggi è la professione per la quale ho il rammarico maggiore. Perché stare insieme ai giovani e contribuire alla loro crescita è quello che avevi voluto e forse anche saputo fare di più.
Il mio lavoro. Perché stare dalla parte dei più deboli e di chi in questo momento ha più bisogno non ti rende certamente migliore degli altri ma ti aiuta a stare dalla parte giusta della storia.
Caldo. Attesa. Venticello, caldo anche quello. Un signore con una maglietta rossa scrive al telefono come me. Sembra anche lui in attesa di qualcuno. Due tassisti parlano fra loro, ma sembrano non aspettare nessuno. Un auto con il motore acceso, forse per non spengere l’aria condizionata. Un ragazzo straniero, forse magrebino, davanti ad una porta con sopra un’insegna: help senter. Di cosa avrà bisogno?
L’auto con il motore acceso avanza di qualche metro, si ferma di nuovo. Dietro di lei si ferma un’altra macchina: scenda una signora, l’uomo che è con lei resta in auto e finisce di fumare una sigaretta. A motore spento.
Passa una giovane coppia, discutono a passo svelto ed entrano in stazione.
Un furgone color crema si ferma davanti all’help center. Il ragazzo magrebino si alza e si mette a parlare con l’autista del furgone: caricano delle borse.
Arrivano delle turiste con i loro trolley.
La signora intanto torna alla macchina, che resta spenta.
Il signore con la maglia rossa si avvicina anche lui all’help center e si mette a parlare con i due che stanno caricando il furgone. Il ragazzo magrebino ha un piede ingessato e una stampella.
La macchina con la signora intanto riparte e va via.
I due tassisti continuano a parlare, abbastanza disinteressati a quello che gli succede attorno.
Il bar della stazione si chiama Bar Italico, chissà perché. Ha una scritta rossa su fondo bianco, al contrario di quella dell’help center che è bianca su sfondo rosso.
Una signora con un bambino piccolo attraversa la strada e per poco non viene investita da un pazzo che va in retromarcia senza guardare.
Arriva un pullman dal quale scende un altro signore magrebino che sembra parlare da solo. Urla, è molto alterato.
Ecco una mamma molto arrabbiata con i suoi figli. La rabbia mi sembra ben contraccambiata anche da loro.
Un signore anziano mi passa davanti un po’ disorientato, forse stanotte dormirà in stazione.
Mi sono distratto e non ho visto ripartire il furgone color crema, ma intanto oltre all’autista non ci sono più né il signore magrebino né quello con la maglia rossa.
Di tutti quelli che c’erano cinque minuti fa sono rimasti solo i tassisti e il magrebino che parla da solo. Loro, per motivi diversi, non hanno fretta.
Anche la mia attesa è finita. Riparto lasciando la stazione alla sua vita variegata e talvolta complessa.
“Che sono le parole, infine? Niente sono! Perché avete tanta paura delle parole?”
Maria Corti, L’ora di tutti
Ma cosa sono le parole? Davvero non sono niente e ci devono lasciare così indifferenti? Io credo di no, io non sono della teoria che contino soltanto i fatti. Fosse solo perchè, spesso, le parole li precedono, i fatti e per questo possono sicuramente condizionarli. In questo senso io sono molto più d’accordo con Carlo Levi quando scrive che le parole sono pietre. Possono esserlo nel momento in cui scagliano giudizi affrettati, pareri estremi. E in quei casi, quanti fatti servono per sbriciolare un po’ quelle parole.
Le parole, infatti, sono veicoli di comunicazione, strumenti per trasmettere pensieri, emozioni, concetti e idee. Sono come le note nella musica o i colori nella pittura: elementi che compongono il tessuto della nostra esistenza e del nostro modo di percepire il mondo. Proprio per questo le parole possono essere usate in modi diversi e lasciare segni diversi in coloro verso cui sono indirizzate.
Poi, certo, la paura delle parole può derivare da vari fattori: dal potere delle parole di ferire o manipolare gli altri o semplicemente dal timore di non trovarne altre, di giuste, per controbattere. Ci sono anche persone, in verità, che hanno paura delle parole perché esse possono rivelare verità scomode o mettere in discussione le loro convinzioni.
In ultima analisi, le parole sono potenti. Possono essere usate per costruire o distruggere, per educare o ingannare, per unire o dividere. È importante comprendere, e non banalizzare, il potere delle parole; non usarle con leggerezza ma con saggezza e compassione.
Puoi imparare molte cose dai bambini: per esempio tutta la pazienza che hai.
Franklin P. Jones
I bambini in generale, e i figli in particolare, sono il regalo più bello che può capitare ad un essere umano. Detta questa convinzione della quale, per quanto riguarda la mia vita, sono assolutamente certo, solo chi ha figli conosce al meglio la pazienza che viene richiesta a chi ha a che fare con i bambini. Notti insonni, pianti immotivati, giochi infiniti quando la stanchezza prenderebbe volentieri il sopravvento. E poi bizze, litigi, proteste.
Quindi è assolutamente vero quello che dice Jones quando scrive che i bambini tirano fuori tutta la pazienza che abbiamo a disposizione.
Tutto vero insomma. Ma…avete mai provato a chiedere ai bambini della loro pazienza? I bambini sono impazienti, si dice spesso. E dal nostro punto di vista è vero. Ma dal loro? Ci ricordiamo della fatica a sopportare le regole degli adulti? E quella per imparare cose o, viceversa, la frustrazione di vedere bloccata la nostra (adesso loro) curiosità?
Insomma, io credo che se noi ci ricordassimo la pazienza che abbiamo dovuto avere da bambini, peraltro quasi mai valorizzata, saremmo sicuramente più pazienti da adulti.
Sempre le stesse: facce sorridenti, quella affaticata, il pollice alzato e poche altre. Ne uso poche ma le uso spesso e comunque sempre a contorno, quasi a completamento, di frasi scritte.
Come dice mia figlia, sono boomer. Preferisco le parole, che descrivono le emozioni meno rapidamente, ma forse cogliendo qualche sfumatura in più.
Mi sono adattato poco, e male, anche ai messaggi vocali, perché mi sembra di essere scemo a camminare parlando con un telefono senza nessuno che risponde.
Mi piace di più scrivere, provare a moderare e ponderare le parole anche in messaggi semplici e non necessariamente sui massimi sistemi.
Ho un amico sacerdote, che un po’ di tempo fa vedevo molto spesso e che adesso, purtroppo, vedo molto più raramente. Con lui, nonostante che abbiamo valori comuni, abbiamo idee politiche spesso molto diverse. Eppure, nonostante questo, o più probabilmente proprio per questo, mi piace molto discutere di politica con lui. Mi piace confrontarmi con persone intelligenti che la pensano diversamente da me, perché penso che il confronto fra idee diverse sia alla base della politica.
Mi piace, poi discutere di sport, soprattutto di calcio. Mi piacerebbe farlo anche di basket, che è lo sport che ho praticato e che amo di più, ma sono poche le persone che lo seguono con continuità. È ovvio che la discussione sportiva è molto meno impegnativa e seria di quella politica, ma è vero anche che, trattandosi di un confronto fra tifosi, comporta una dialettica più accesa e meno diplomatica.
Con la mia mamma, e con pochi altri, in realtà, mi piace discutere di libri, visto che lettura è la mia grande e perenne passione. In questo caso, più che vere discussioni, si tratta più di confronti e condivisioni su argomenti, titoli e scrittori.
Poi ci sono le discussioni varie ed eventuali, quelle su argomenti quotidiani e contingenti, ma quelle generalmente mi appassionano poco e lasciano il tempo che trovano.
Proprio mentre scrivo mi chiedo se tutte queste che ho scritto siano vere e proprio discussioni, visto che queste, nel suo significato più vero, dovrebbero comportare una soluzione all’argomento affrontato. In tutti i casi sopra riportati, invece, non c’è quasi mai una soluzione, alla fine, ma solo un confronto fra posizioni diverse, un’analisi condivisa. Troppo poco? Può darsi, ma almeno per quanto mi riguarda, oggi, spendere tempo nel confronto con gli altri è uno degli atti più rivoluzionari che si possono compire, in una società sempre più individualista e chiusa in sé stessa.
La soluzione può attendere, insomma, l’importante è non perdere la passione di confrontarsi e, perché no, di dividersi con l’obiettivo di migliorarsi.
Saltuariamente. Senza una programmazione. In genere solo per condividere momenti di vita familiare o, più raramente, pensieri su fatti di attualità o posizioni politiche.
Li visito spesso durante la giornata per vedere aggiornamenti su amici e conoscenti che usano i social con più continuità.
Insomma, non li demonizzo ma neanche li metto al centro della mia vita. Sono uno strumento, utile per esempio per tenere contatti con persone che abitano lontano. Ma la vita reale, per molti versi fortunatamente, è fuori da quel mondo.