L’amore non è un giogo

L’amore non è un giogo, ma una sinfonia di momenti, emozioni, sentimenti che ci spingono oltre i confini dell’egoismo. Accettando la responsabilità di prendersi cura l’uno dell’altro. E anche alcuni limiti, perché solo così possiamo essere davvero liberi e completi.

Amando impariamo la compassione, la pazienza e la gratitudine, ma anche ad essere sostenuti e sopportati a nostra volta. È un viaggio che ci trasforma, plasmando il nostro carattere e insegnandoci la bellezza della condivisione.

L’amore non è un giogo, ma un filo invisibile che intreccia il presente con il futuro, in un passato che non passa mai fino in fondo.

Amare significa affrontare le salite ripide e le discese ardite nelle valli degli alti e bassi, ma sempre con la consapevolezza rassicurante di non essere soli.

Quello che non ho

Quante volte ci sentiamo incompleti, che ci manca qualcosa. E questa mancanza ci fa sentire insufficienti e ci fa godere meno di quanto potremmo di tutto ciò che abbiamo e che dovremmo mettere a disposizione.

Eppure è proprio ciò che ci manca che ci fa aprire agli altri e ce li fa amare. Perché spesso, in fondo, cerchiamo negli altri quello che non abbiamo.

Dovremmo imparare ad amare quella casella mancante del nostro puzzle, perché trovandola negli altri ci sentiamo parte di un tutto, di una comunità che si riconosce e che si sostiene. E che proprio grazie a quell’assenza è più unita e solidale.

Perché alla fine, come scriveva De Andrè, “quello che non ho è quel che non mi manca.”

Fedeli e aperti

Con il passare del tempo ci accorgiamo che le cose davvero importanti della nostra vita sono quelle a cui siamo rimasti fedeli.

Hannah Arendt

Quali sono le cose davvero importanti nella nostra vita? I valori e gli ideali imparati da bambini e che ci sono stati tramandati? Le persone che hanno fatto con noi un tratto di strada? Oppure i soldi, il successo o la gloria? Non per tutti le cose importanti sono le stesse.

Hannah Arendt si sofferma sul passare del tempo, perchè è difficile mantenere gli stessi ideali per tutta la vita. E spesso questo succede non tanto per coerenza, che in sè non sarebbe neanche una cosa negativa, ma per debolezza e assuefazione alle idee dominanti in un determinato periodo storico.

Nella mia esperienza personale mi vengono in mente due categorie di persone che sono rimaste fedeli per tutta la vita ai loro ideali, senza imporli e confrontandosi con gli altri con apertura ma anche con coerenza.

La prima sono le suore. La loro identità e i loro ideali sono facili da individuare, fosse solo per l’abito che portano, che in qualche modo le differenziano dagli altri. Ne ho conosciute tante negli anni, in Italia e in giro per il mondo; alcune mi sono piaciute, altre meno. Ma in quasi tutte ho potuto vedere la bellezza e la gioia di rinnovare ogni giorno la loro scelta di fede fatta in alcuni casi alcuni decenni prima. Una scelta forte e definitiva, che però non impedisce loro di confrontarsi con persone che vengono da storie e valori completamente diversi.

La seconda categoria è rappresentata dalle persone che per una vita intera sono state legate ad un’idea politica e di partito. Dopo tanti incontri con loro posso dire con un buon livello di certezza che ho trovato in quelle persone così fedeli ai loro ideali, spesso di gioventù, una grande disponibilità al confronto e alla discussione su temi importanti. Una disponibilità così difficile da trovare, oggi, nei tanti che confondono la fedeltà e la coerenza con l’intransigenza e la chiusura nei confronti di qualunque diversità.

Darsi il tempo

“Solo quando si amano la vita e la terra, al punto tale che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuovo; solo se l’ira e la vendetta di Dio contro i suoi nemici restano realtà valide, qualcosa del perdono e dell’amore verso i nemici può toccare il nostro cuore. Chi vuole essere e sentire troppo frettolosamente e troppo direttamente in modo neotestamentario, secondo me non è un cristiano.”

Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa

Nella sostanza, si può apprezzare veramente una cosa, quando abbiamo vissuto anche il suo contrario. Si può avere una posizione chiara e decisa solo quando abbiamo sentito come nostre le posizioni degli altri.

Ho letto alcuni anni fa Resistenza e resa: un libro bellissimo, ma pesante, difficile da portare a termine. Eppure incredibilmente bello in dei passaggi, per quanto segnati da una grande drammaticità.

Nello schematismo di oggi, un tempo in cui sembra che siamo chiamati a prendere decisioni nette e incrollabili, invece che critiche e passibili di cambiamento, questo passo di Bonhoffer emerge in tutta la sua rivoluzionarietà.

Il racconto di una spiaggia vuota

A Steccato di Cutro, oggi, era una giornata bellissima: spiaggia piena di bagnanti, ma non troppi da rendere invivibile la convivenza, mare calmo, trasparente e un sole caldo reso sopportabile da una brezza leggera.

La spiaggia, in quel tratto della Calabria, è molto spesso libera, intervallata solo da qualche struttura balneare.

È proprio alla fine di una di queste che iniziava un tratto di spiaggia quasi completamente vuoto; aspetto che ci è subito balzato agli occhi arrivando sul bagnasciuga.

Abbiamo capito rapidamente che quello era il tratto di mare nel quale, nella notte fra il 25 e il 26 febbraio di quest’anno, è naufragata l’imbarcazione carica di migranti, provocando la morte di almeno 94 persone.

Camminando sul bagnasciuga abbiamo raggiunto quello spicchio di spiaggia. Anche parlandone dopo fra di noi non siamo riusciti a capire se il non utilizzo di quel pezzo fosse dovuto ad una scelta condivisa di rispetto nei confronti delle vittime del naufragio, alla decisione insindacabile di una autorità deputata o semplicemente ad una valutazione per la quale non erano necessarie parole di spiegazione.

Quelli che conoscono il mare dicono che questo riconsegna alla terra le cose anche dopo molti giorni, settimane e talvolta addirittura mesi: non so se è stato così anche per gli oggetti che abbiano visto sulla spiaggia, ma certo è stato molto toccante vedere un grosso pezzo di legno, evidentemente parte di una imbarcazione, alcuni indumenti invernali e soprattutto una giacca a vento viola da bambino. Erano tutti raccolti nello spazio di pochi metri, in questo momento non proprio vicini alla riva ma probabilmente lasciati lì dalla risacca della marea invernale molto più alta.

Guardando avanti per un centinaio di metri, verso la zona nella quale la nave si è spezzata, non mi è sembrato di vedere quella secca, quella zona di acqua bassa che ha ingannato la persona che guidava l’imbarcazione, scafista o migrante che fosse. Non ho visto il tranello giocato dal mare ma ho pensato che quelle persone, vedendo la riva così vicina, si saranno sentiti quasi al sicuro, nonostante il mare i tempesta. È stato terribile immaginarsi la scena del passaggio dalle urla di incoraggiamento per una salvezza ormai prossima a quelle di terrore della consapevolezza della morte imminente.

La gente di Cutro non dimentica questa tragedia che li ha visti spettatori addolorati e attoniti: lo dice quel pezzo di spiaggia spoglio e vuoti, lo dici il monumento realizzato nella piazza che indirizza verso il mare.

Cutro non dimentica ed è normale e giusto che la vita vada avanti, soprattutto per coloro che campano di turismo e non possono proprio permettersi di perdersi i mesi più redditizi dell’anno. Eppure, nonostante questa consapevolezza, era proprio stridente il contrasto fra quello spicchio di sabbia e le spiagge attorno piene di turisti a prendere il sole e a godersi quel mare meraviglioso; fra l’allegria e la spensieratezza di queste persone e di questi giorni e l’incubo senza fine di chi ha perso la vita in quel naufragio ad un passo dalla riva e di chi ha visto morire parenti, amici e compagni di viaggio.

Noi oggi ci siamo fermati su quel pezzo di spiaggia, per un pensiero e una preghiera. Non lo abbiamo fatto per mettere in evidenza chissà quale bravura e sensibilità, ma solo nella speranza che questa tragedia, così come le molte altre successe nei mesi e anni scorsi, possano aprire i nostri cuori alla solidarietà, per sentire la bellezza di cambiare quella parola così abusata in questi anni, ‘io’, in un ‘noi’ che dia di nuovo la speranza di un mondo più giusto e solidale.

I colori del giorno che nasce

Il cielo che si tinge lentamente di rosa inizia a delineare una differenza rispetto al mare sul quale si è fuso al tramonto della sera prima.

I pescherecci che tornano verso riva, quasi affiorando dalla notte, sembrano arrivare da uno spazio e un tempo ignoto.

Le nuvole all’orizzonte fanno da sipario all’arrivo del sole, che nel frattempo ha cambiato il rosa del cielo in viola e il viola in un blu sempre meno buio e sempre più definito rispetto al mare, che piano piano ridiventa azzurro.

Ma tanto l’attesa appare lunga, così l’arrivo del sole sulla scena della giornata è rapido e trionfante.

Fa capolino fra le nuvole uno spicchio di luce arancione, quasi rosso. Il tempo di impostare la macchina fotografica per cogliere al meglio l’alba sul mare e lui si è già alzato un po’, quasi come se non volesse farsi cogliere appena sveglio.

Il cielo, che prima era di colori tenui e sfumati, ora è riempito da questa esplosione di luce. E la scia che il primo sole lascia sul mare sembra quello di una nave che si sta dirigendo verso la terra ferma.

Fra poco brucerà e ci spingerà a trovare un po’ di riparo dalla sua forza estiva, ma vederlo sorgere da uno spiazzo di un campeggio proprio in riva al mare regala una pace che non si può cogliere con la semplicità di uno scatto. L’alba è l’immagine della tavolozza dei colori di un Creatore, che usa tutte le sfumature possibili per mostrare le innumerevoli sfaccettature di sé.

Sogni da un mondo che c’è già

La prima persona che incontro è mio padre: il suo aspetto è quello di sempre, pacifico, calmo, deciso ma sereno. Nel suo volto non c’è nessun segno di quella sofferenza che ha caratterizzato gli ultimi suoi mesi di vita, e forse anche per questo il solo vederlo fa passare tutte le sensazioni di questi anni di mancanza e dei mesi precedenti alla sua morte: dolore, paura e fino ad ora tanta tanta nostalgia.

E’ strano, perchè quando mi è capitato di pensarci nella vita reale ho sempre sentito di avere un’infinità di cose da dirgli, ma adesso che ce l’ho davanti come non osavo più neanche immaginare non ho niente da dirgli. Non perchè mi si sia legata la lingua, ma perchè so, avverto, che lui sa già tutto. E il non raccontarglielo non mi manca affatto, perchè dentro di me so già che quelle cose le ha viste ed ascoltate tutte le volte che nei mesi e negli anni scorsi avrei avuto voglia di dirgliele. Non ci siamo mai distaccati del tutto e adesso è questa consapevolezza a darmi così tanta pace.

Adesso che camminiamo insieme parlando in un linguaggio nuovo che non prevede parole, sento di non avere ansie e preoccupazioni, che i problemi di ogni giorno sono quasi svaniti: se mi concentro riesco a vederli ancora davanti a me, ma sono piccoli, insignificanti rispetto all’immensità del tutto che adesso riesco ad assaporare.

Mi rendo conto che in questa dimensione che non avrei immaginato, c’è una cosa che invece è precisamente uguale a come l’avevo pensata nella vita normale: riesco a cogliere il senso di tutto. Della vita e della morte, della pace e della guerra, della povertà più sanguinosa e della ricchezza più irriverente. La mia non è tanto una presa di coscienza, di consapevolezza, ma la normalità che finalmente si è manifestata in tutta la sua evidenza, come se non avesse in alcun modo essere potuto essere diversamente.

Non ho più il mal di schiena e non me ne chiedo il motivo, perché anche quello fa parte del tutto che ora conosco. Sento di essere in grado di fare tutto quello che avrei voluto: giocare a calcio senza evitare i contatti fisici, camminare senza fine su sentieri di montagna.

Elisa e le mie figlie sono con me, anche se in questo momento non le vedo. Non ho più ansie sul loro futuro e su quello che di bello o di brutto gli toccherà vivere, perché sento che tutto avrà un senso nel grande disegno della vita.

Mi sveglio improvvisamente. Vedo dalla finestra, che lascio sempre con le persiane aperte, che sta albeggiando. Il subconscio (si dice così?) mi rimanda qualche traccia del sogno fatto: il pensiero di aver incontrato babbo, la pace, il senso di tutto. Non rivedo più la sua figura e sento che i nodi che intricano il senso della vita sono di nuovo intricati. Ma scendo dal letto con un sorriso, sapendo che il sogno nel quale quei nodi erano finalmente sciolti e in cui l’invisibile era diventato invisibile è stato il legame fra il mondo di oggi e quello che già c’è e che un giorno sarà visibile.

Tempo e cura

Vorrei prendermi cura di me soprattutto seguendo le mie passioni: leggere dei buoni libri e scrivere.

Purtroppo però la sera arrivo a casa stanco e, giustamente, dopo buona parte della giornata passata fuori, la famiglia richiede presenza, partecipazione e attenzione. E quindi alla fine è molto raro che riesca a fare ciò che mi piace e di cui sento il bisogno. Mi trovo a leggere a letto prima di dormire, ma spesso gli occhi si chiudono prima della fine del paragrafo. Il tempo per scrivere, poi, non lo trovo quasi più: e allora butto giù di getto quello che mi passa per la testa senza neanche rileggerlo, giusto per la soddisfazione di mettere tre pensieri in fila.

A voler essere sinceri, però, non ho cura di me solo per mancanza di tempo, ma anche perché, vuoi per stanchezza, per pigrizia o per chissà cosa, quando ho mezz’ora libera mi trovo a giocare o a navigare con il telefono. E puntualmente a trovarmi frustrato e deluso quando mi rendo conto di essermi bruciato quei pochi minuti che avrei potuto dedicare a me stesso.

Non prendendomi cura di me con le cose che amo fare, poi, spesso reagisco concentrando l’attenzione su di me solo attivando il campanello di allarme per i miei malanni, che sono tanti ma tutti, almeno al momento, di lieve entità.

Un quadro triste e desolante, quindi? Io alla fine direi proprio di no. Perché è vero che mi manca il tempo per leggere e scrivere e che quel poco che ho la dedico ad attività inutili delle quali dopo mi pento. Ma è anche vero che ho poco tempo perché faccio un lavoro che amo e perché stare con la mia famiglia, dopotutto, è il miglior balsamo e la miglior cura possibili.

Anche stavolta finisco queste righe senza avere il tempo per rileggerle, ma felice e soddisfatto per aver trovato quello per scriverle.

Crocchette di patate

Ho la fortuna di vivere in quella che era la casa dei miei nonni materni. Una casa alla quale sono profondamente affezionato fin da piccolo e nella quale ho sempre sognato di vivere con la mia famiglia e i miei figli. Sì, fra i sogni realizzati questo lo metterei di sicuro fra i primi.

Proprio perchè ‘vivo’ questa casa fin da quando sono nato, ricordo molti dei cambiamenti che sono avvenuti in queste stanze e posso ripercorrere in ognuna di essere ciò che erano prima e i ricordi che ci sono legati.

La camera di Nicholas e di Cisse, per esempio, quando c’erano ancora i miei nonni era la sala da pranzo. A dir la verità ho un vago ricordo anche del periodo precedente, quando era una stanza buia, che io ricordo senza finestre, nella quale venivano sistemate le cose che non si usavano più. Perchè a quei tempi, a differenza di adesso, non si buttava via niente, memori e consapevoli dei tempi duri della guerra nei quali mancava anche il necessario per vivere.

Se il ricordo della stanza buia è però abbastanza vago, quello della sala da pranzo è molto nitido. Il tavolo al centro della sala, la vetrina addossata ad una parete in fondo; entrambi, tavolo e cucina, sono adesso a casa di mio fratello, anche loro segni di una continuità familiare.

Nella stanza accanto, dove adesso c’è la lavanderia, c’era la cucina. Era proprio da lì che la domenica arrivavano i rumori e i profumi della preparazione in corso.

Ecco, pensando alla sala da pranzo il ricordo più nitido non è fisico ma è, per così dire, immateriale: i profumi. Sì perchè mia nonna materna era davvero un’ottima cuoca. Era brava proprio a fare tutto: le lasagne, la carne, soprattutto il pollo e il coniglio, i dolci. Proprio grazie ai suoi dolci, credo, nella mia famiglia, per linea materna, siamo molto ghiotti e fra una pizza o una schiacciata e una pasta o un dolce sappiamo bene cosa scegliere.

Fra tutti i profumi e le immagini che posso ricordare, ce n’è uno che associo in modo indelebile a mia nonna e a quella stanza: le crocchette di patate.

Grandi più o meno come una susina, croccanti, sono sicuro di non averne più mangiate così saporite. E, dicevo, il profumo: un profumo fragrante, allettante ma nello stesso tempo semplice, di cose buone e genuine. Un odore di domenica, di famiglia riunita per il pranzo, a raccontarci quello che era successo durante la settimana, aspettando l’inizio delle partite, a quel tempo tutte giocate rigorosamente di domenica pomeriggio.

Ancora oggi, entrando in camera di Nicholas, mi sembra di sentire quel profumo. Ancora oggi, quando nel menù di un ristorante trovo le crocchette di patate, è molto difficile che le ordini, perchè sono sicuro che non sentirò lo stesso profumo e lo stesso sapore.