Proprio un anno fa, il 30 gennaio 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò quella provocata dal Covid-19 un’emergenza globale: non era più, quindi, un problema che riguardava solo la Cina, ma il mondo intero. Da lì a qualche settimana, l’11 marzo, la stessa Oms la definì una pandemia.
Non è necessario spiegare quanto questo anno abbia cambiato le nostre abitudini e le nostre vite: che la diffusione del Covid sia stata, e che purtroppo sia ancora, un’emergenza ‘globale’ è dimostrato dal fatto che non esiste Paese al mondo, e probabilmente ben poche persone, che non abbia rimodulato il proprio stile di vita per renderlo funzionale alla sua progressiva sconfitta.
Siamo arrivati ad un punto di questa traversata tale che, almeno io, più ancora della fatica dei mesi trascorsi fra precarietà, distanziamento e paura, sento il peso dell’incertezza e dell’imperscrutabilità di quelli che abbiamo davanti. Questo peso è sicuramente dovuto alla situazione in sè, alla perdita delle nostre abitudini, alla conta dei morti, ai timori legati ad una ripresa economica che, più che incerta, appare impossibile. Ma ancora di più questo peso, è dovuto alla consapevolezza di non avere gli strumenti, le chiavi giuste, per poterlo sostenere.
Un anno fa stavamo faticosamente e lentamente uscendo da una crisi economica che si protraeva da circa dieci anni: la più importante, dicevano i commentatori e gli analisti, dai tempi della Grande Depressione. Eppure, nonostante questo, l’impatto generale di questa enorme difficoltà non era stato così profondo come quella che stiamo vivendo. Sicuramente uno dei motivi è legato al fatto che i morti legati a quella crisi, che pure ci sono stati, non sono stati forse così tanti e sicuramente così evidenti come quelli provocati dalla situazione attuale. Ma uno dei motivi, io credo, è legato al fatto che quella situazione non aveva messo in discussione i fondamentali del nostro vivere quotidiano. Certo, ci sono state anche in quel caso decine e decine di migliaia di persone che hanno perso il loro lavoro, con conseguenze facilmente e terribilmente immaginabili. Ma la vita quotidiana in generale, quella della popolazione presa tutta intera, senza concentrarsi sui casi singoli, è andata avanti più o meno allo stesso modo.
Adesso no. Adesso siamo davanti ad un cambiamento forzato che, se non vogliamo soccombere oltre che dal punto di vista sanitario anche da quello sociale, esige un rinnovamento.
Rinnovamento è una parola diversa da cambiamento, perchè contiene anche una valutazione qualitativa che l’altra parola, invece, da sola, non ha. Rinnovare vuol dire rendere nuovo, migliorare. Sì, migliorare, perchè rinnovare non vuol dire dare un’imbiancatina ad un edificio vecchio, ma renderlo nuovo dalle fondamenta.
Abbiamo davanti l’esempio, desolante, che la nostra classe politica ci sta dando sulla nuova, ennesima, crisi di governo: piccoli calcoli di bottega, decisioni prese sulla convenienza del momento, persone che pur di restare attaccati alla poltrona farebbero e direbbero il contrario preciso di quanto avevano sostenuto fino a qualche giorno fa.
‘Di cosa ti meravigli?’, mi potrebbe essere chiesto, ‘è sempre andata così.’
No. Non è sempre andata così. Perchè rarissime volte il Paese si è trovato in una situazione del genere. In negativo, certamente, con una situazione tremenda come l’abbiamo descritta. Ma anche come opportunità, vista la quantità enorme che l’Unione Europea ha messo a disposizione dell’Italia: una quantità così ingente non si vedeva dai tempi del piano Marshall.
Ho già detto altre volte che questo momento non è paragonabile a quello della seconda guerra mondiale: per contesto, situazione globale, caratteristiche. Ma se vogliamo proprio farlo, quel paragone, ci accorgiamo rapidamente come la classe politica, uscita dalla guerra e da vent’anni di dittatura, seppe mettere da parte divisione ed interessi di parte, creare quel miracolo civile che è la nostra Costituzione e collaborare alla gestione delle risorse del piano Marshall. Seppero, insomma, rinnovarsi.
Ecco, in questo senso vorrei vedere una similitudine con quell’altro momento drammatico della nostra storia. Nella capacità di rendersi nuovi, di lasciare i vecchi difetti, di smentire gli stereotipi sugli italiani che anche stavolta stiamo incredibilmente confermando.
Un rinnovamento vero forse non sarebbe in grado di farci superare la pandemia con un salto, ma ci darebbe la forza e la convinzione di poterlo fare. Lentamente, forse, ma di sicuro con parecchia fiducia in più.