Prima la pandemia, adesso la guerra, così vicina che ci sembra di toccarla e che possa invadere ancora di più le nostre vite da un momento all’altro. Queste due esperienze creano una grande preoccupazione, nuova perché ci sembra di non avere gli strumenti adatti per poterla affrontare e perché non ne vediamo una fine definita. A me, genitore, oltre a quella individuale, si aggiunge anche la preoccupazione su quale mondo, su quale futuro saremo in grado di lasciare ai miei figli e ai giovani che, come loro, si affacciano alla vita. Abbiamo avuto la fortuna, in questa parte di mondo, di vivere decenni di pace e di sviluppo economico e sociale, pur fra naturali alti e bassi. Abbiamo vissuto la guerra come un’esperienza lontana, figlia del ricordo dei nostri nonni e di echi lontani che sembrava quasi ovvio che non potessero avvicinarsi fino a noi. Anche quando i conflitti erano davanti “a casa nostra”, prima nei Balcani, poi in Libia, sembrava che le nostre democrazie potessero proteggerci da un coinvolgimento diretto. Eppure anche in quelle guerre i nostri Paesi e il nostro continente aveva un ruolo e una responsabilità, più o meno diretta. Questo ritenerci lontani dai conflitti ci ha spinti a vedere nei nostri fratelli che cercavano rifugio nelle nostre terre come degli intrusi che non meritavano la nostra accoglienza: alla fine la loro presenza incrinava il nostro quieto vivere, ci metteva di fronte una realtà che preferivamo non vedere.
Adesso che abbiamo provato sulla nostra pelle come un virus invisibile se non al microscopio può sconvolgere totalmente le nostre vite e come una guerra, quasi da un momento all’altro, può diventare parte ingombrante e disastrosa del nostro quotidiano, viviamo uno stato di frustrazione e di impotenza. Nell’uno e nell’altro caso ciò che dovrebbe e potrebbe essere fatto ci sembra più grande di noi.
Cosa fare quando ci si sente impotenti e quando sembra che la sola, piccola goccia che possiamo dare evapori prima ancora di cadere nell’oceano? Possiamo farci da parte ed aspettare che passi la minaccia. Oppure continuare a dare quella goccia, consapevoli che è quello che dobbiamo fare, indipendentemente da quella che sarà la sua destinazione finale.
Per me quella goccia, in questo momento, è educarci ed educare alla bontà e alla bellezza. Alla bontà, così bistrattata negli anni scorsi da far nascere anche un neologismo appositamente creato con accezione negativa, “buonista”. In un periodo come questo invece la bontà è uno dei salvagenti più importanti per tornare finalmente in acque tranquille. Una bontà che guarda all’altro, al prossimo, come ad un fratello da aiutare, se è nel bisogno, e con il quale condividere ciò che abbiamo a disposizione. E poi alla bellezza, così importante in un mondo sempre più distrutta dall’azione dell’uomo. La bellezza del creato, ogni giorno più in pericolo. Ma anche quella dell’uomo, di ogni uomo, dei volti. E di ciò che l’uomo è in grado di creare.
Alla fine saranno proprio la bontà e la bellezza a farci rivedere la luce e a vincere l’odio e la distruzione insita in ogni guerra.