Quando sono nato avrei potuto morire subito, dopo pochi giorni. Oppure, ipotesi più probabile, avrei potuto continuare a vivere con menomazioni importanti: la mia malattia alla colonna vertebrale avrebbe potuto impedirmi di camminare, correre neanche pensarlo, di fare una vita normale, di avere figli. Era possibile, o anche questo probabile, che il mio sviluppo intellettivo si sarebbe bloccato presto, lasciandomi, anche in questo caso, con difficoltà e privazioni importanti.
Il caso, Dio o semplicemente la fortuna hanno voluto invece che io camminassi, che potessi correre, fare una vita tutto sommato normale, avere figli. Certo, il mal di schiena è il mio perenne compagno di viaggio, ma posso ben dire di avere avuto una vita molto migliore di come era stata prevista al momento degli exit poll.
Credo in Dio ma, se quello che ho vissuto ha qualcosa a che fare con il destino, allora credo anche nel destino. Che poi, per chi crede, ciò che comunemente viene chiamato destino, potrebbe essere riassunto in ciò che Dio ha pensato per ognuno di noi nella storia dell’universo.
Da questo punto di vista, credo nel destino: credo che non abbiamo nessun merito o demerito per essere nati qui ed ora, per aver potuto o meno godere di determinate situazioni di partenza, per aver fatto degli incontri o per aver vissuto degli intoppi o potuto godere di occasioni inaspettate.
Raccontavo ieri della casualità dell’incontro con suor Maria Grazia e il Vides. Un incontro ‘improbabile’, ma che pure è successo e che ha cambiato la traiettoria della mia e di tante altre vite. Se questo è il destino, o la mano di Dio, non ho dubbi che esista.
Non credo, invece, nel destino o in un Dio che ha già deciso, prima che noi nascessimo, quale sarebbero state le tappe della nostra vita: mi sembra un’ipotesi deresponsabilizzante, che ci pone nella condizione di trasformarci in pupazzi inespressivi e passivi, comprimari della nostra stessa vita. Credo nel Dio cristiano perchè, oltre a metterci, senza la nostra volontà, in un qui ed ora, ci dà, da quel momento in poi, la libertà di vivere e di scegliere e perchè soprattutto, ci dà il compito, l’obbligo direi, di sfruttare i nostri talenti, di rendere utili le nostre vite.
E questo mandato, di sfruttare i nostri talenti, sarebbe di per sè, anche da solo, un bel programma per vivere una vita intera e piena. Perchè ognuno di noi li ha, ma non è sempre facile scoprirli. Perchè anche dopo averli scoperti, non è così automatico farli fruttare, visto che nel frattempo la vita, con le sue anse e le sue ripide, potrebbe averci portato a prendere altre strade, magari non troppo compatibili con la messa a valore delle nostre caratteristiche.
Ieri ascoltavo l’intervista allo scrittore Alessandro D’Avenia, guarda caso inviata da quella suor Maria Grazia che mi ha condotto e guidato anche al Vides. Mi ha colpito il fatto che, rivolgendosi ai ragazzi che erano venuti in un teatro per ascoltarlo, lui suggerisse di chiedersi cosa ciascuno di loro avesse di unico. Mi è sembrato un messaggio bellissimo, non solo come stimolo, ma anche per la radicale convinzione che ognuno di noi lo abbia.
Ascoltando, mi veniva da pensare che la parola ‘unico’, utilizzata in quel contesto, è neutra, non ha necessariamente un’accezione completamente positiva. Unica è anche una situazione data, dalla quale purtroppo non possiamo fuggire, ma che ci dà la forza e la determinazione per fare della nostra vita qualcosa di più e di meglio rispetto a quello che sembra probabile al momento del semaforo verde del via della corsa.
Perchè se il destino esiste, siamo anche e soprattutto noi, a decidere la destinazione.