Oltre i limiti: un viaggio di resilienza e gratitudine

Descrivi una decisione che hai preso in passato che ti ha aiutato a imparare qualcosa o a crescere.

Ho deciso di provare a vivere una vita normale, nonostante che all’inizio del percorso ci fossero diverse condizioni che mi avrebbero potuto portare a vivere una vita a metà, o forse neanche a viverla.

Ho imparato a vivere i miei limiti fisici come ostacoli da superare per provare a migliorarmi.

Non è stato sempre semplice e non sempre ce l’ho fatta; ci sono stati diversi fallimenti e frustrazioni.

Ma se oggi posso dire in qualche modo di avercela fatta, almeno fino ad ora, non è stato sicuramente solo merito mio. Ce l’ho fatta perché non sono mai stato solo, perché la mia famiglia e i miei amici mi sono sempre stati vicini e di supporto.

Ecco. Io in tutti questi anni ho imparato che le decisioni importanti non si prendano mai da soli, ma insieme agli altri facendone parte le persone che abbiamo vicino.

Oggi sono sicuramente più consapevole di quando ero ragazzo. Ho imparato ad accettare i miei limiti, ma senza arrendermi a loro. So fin dove posso arrivare, ma che posso provare a raggiungere un punto in più rispetto a quanto ho ottenuto fino ad ora. Sono cresciuto insieme ai limiti, e in parte anche grazie alle difficoltà che ho incontrato.

Avrei voluto una vita diversa? Ci penso spesso. Avrei voluto fare cose che non ho potuto fare e non avere certe preoccupazioni e pensieri. Ma so di essere stato fortunato, per certi aspetti addirittura un miracolato. E che le mie difficoltà sono state essenziali per essere nel bene e nel male la persona che sono adesso.

Esplorando il mondo

Quale luogo del mondo non vorresti mai visitare? Perché?

Ho avuto la fortuna di viaggiare molto: per piacere, anche per lavoro, ma soprattutto per volontariato. Ho visitato diversi Paesi europei, sono stato un paio di volte  in America del Sud, tante in Africa.

Dovendo fare un bilancio a grandissime linee posso dire che l’Africa è sicuramente il continente che amo di più visitare e che, al contrario, non esiste un posto nel mondo che non vorrei vedere in assoluto. Anche se è ovvio che esistono sicuramente posti che mi ispirano meno rispetto ad altri.

Uno di questi è il continente asiatico. È noto il fascino della cultura cinese, la bellezza di alcune mete indiane, la meraviglia delle montagne più alte del mondo. E potrei continuare.

Eppure, nonostante sia consapevole di tutto questo, che non sia mai stato in quel continente e che quindi non abbia strumenti per giudicare direttamente, l’Asia, semplicemente, non mi ispira.

Non esiste un motivo particolare per questa mia sensazione. Anzi, non esiste proprio un motivo. È soltanto una sensazione che poi magari un giorno sarà completamente smentita, se mi capiterà di andarci. Chissà

In equilibrio fra tecnologia e umanità

La tecnologia come ha modificato il tuo lavoro?

Svolgendo il mio lavoro posso sicuramente usufruire dei vantaggi della tecnologia per migliorare la qualità, risparmiare tempo prezioso e tenermi costantemente in contatto con i colleghi. Allo stesso tempo, però, uno degli aspetti che amo di più del mio lavoro è la consapevolezza che ci sono degli aspetti che non potranno mai essere del tutto rimpiazzati dalla tecnologia.

È innegabile che avere dei luoghi virtuali nei quali conservare informazioni contribuisca molto a svolgere un lavoro migliore in minor tempo. Così come poter svolgere riunioni online ha contribuito a diminuire sensibilmente le spese e le energie per gli spostamenti, a darci la possibilità di incontrare persone che vivono lontane con una facilità incredibile e in definitiva, anche in questo caso, a migliorare fortemente la qualità del lavoro.

Nonostante tutto questo, però, l’arricchimento e il miglioramento che il supporto tecnologico ha certamente garantito, resta il fatto che io lavoro a diretto contatto con le persone, con e per loro. E proprio per questo nessuno strumento, anche il più sofisticato e tarato su esigenze particolari e specifiche, può sostituire il valore dell’incontro faccia a faccia.

È solo parlando con le persone che si riesce a capire i loro bisogni e potenzialità, a costruire relazioni, a scambiare saperi e culture.

Ed è proprio per questo che io sento davvero di utilizzare al meglio la tecnologia, come sostegno utile e fondamentale alle attività dell’uomo, ma mai sostitutiva rispetto all’incontro e alla conoscenza reciproca.

La fortuna di ‘fare un bel lavoro’

Lavoro in un progetto che ha come obiettivo la promozione dell’autonomia socio economica di persone straniere, titolari di protezione internazionale. E sì, il mio lavoro mi piace tantissimo. Mi piace perché dietro alla definizione “progetto che ha….” ci sono delle persone in carne ed ossa. E a me lavorare con le persone piace, anche se talvolta è faticoso, qualche altra frustrante, raramente deludente, molte volte stimolante e, talvolta, addirittura entusiasmante. Mi piace per questi motivi, tutti, non solo per l’ultimo.

Guardandomi indietro mi sembra di vedere con chiarezza che il mio lavoro di oggi è la sintesi quasi perfetta delle cose che ho fatto fino ad ora e dei valori nei quali ho sempre creduto, quelli della solidarietà, dell’aiuto al prossimo, della parità di diritti e di opportunità e dei diritti umani per tutti.

Ho avuto la fortuna di fare volontariato fin da ragazzo e di aver potuto girare il mondo come volontario, in Kenya, Angola, Mozambico, Burkina Faso, Brasile, Perù. Soprattutto grazie a queste esperienze, oggi, riesco a vedere, nei ragazzi per e con i quali lavoro, quelli che ho conosciuto, ormai un po’ di anni fa, in Africa e in America del Sud. E posso anche un po’ dire che ho conosciuto l’Asia dai volti e dai racconti dei ragazzi pachistani, afgani e bengalesi, pur non avendo mai viaggiato in quel continente.

Spesso dico che ‘nella mia vita precedente ho ricoperto incarichi politici’. La descrivo ‘vita precedente’ non per marcare una cesura ma, anzi, per descrivere un’evoluzione, fosse altro che cronologica, del mio percorso. Perché l’impegno politico è stato senz’altro una conseguenza di quello come cooperante volontario, ma è stata anche la base per conoscere di più e meglio le tematiche delle quali adesso mi occupo. In questo senso credo di poter dire che ho concretizzato l’impegno politico in un ambito che è uno spaccato del “tutto”, perché pochi temi come quello della gestione dei fenomeni migratori racchiudono al loro interno la complessità dell’argomento, la banalizzazione estrema da parte del dibattito politico mainstream, il legame fra il locale delle organizzazioni e delle comunità impegnate nell’accoglienza e il globale delle scelte economiche e geopolitiche che le producono, le grandi migrazioni di massa.

Amo il mio lavoro, infine, perché mi sembra un’ottima concretizzazione, anche in questo caso, della frase evangelica “ama il prossimo tuo come te stesso”. Anche quando il prossimo è profondamente diverso da te, anche quando, soprattutto, il tuo prossimo fa letteralmente di tutto per non farsi amare, ma quasi tutto per provocarti la reazione opposta. Amare oltre ogni logica. Non credo assolutamente di riuscirci, ma è bello ogni giorno avere lo stimolo per farlo.

Nel mio lavoro sperimento ogni giorno l’impotenza e la frustrazione della distanza fra i nostri sogni di promozione e di aiuto reciproco ed una realtà molto spessa fatta di rifiuti e ambiguità. Ma sento di amarlo, il mio lavoro, perché nonostante le non poche delusioni, queste non spengono (quasi) mai la passione, la voglia di fare e, soprattutto, di sognare.

Destinati a vivere

Quando sono nato avrei potuto morire subito, dopo pochi giorni. Oppure, ipotesi più probabile, avrei potuto continuare a vivere con menomazioni importanti: la mia malattia alla colonna vertebrale avrebbe potuto impedirmi di camminare, correre neanche pensarlo, di fare una vita normale, di avere figli. Era possibile, o anche questo probabile, che il mio sviluppo intellettivo si sarebbe bloccato presto, lasciandomi, anche in questo caso, con difficoltà e privazioni importanti.

Il caso, Dio o semplicemente la fortuna hanno voluto invece che io camminassi, che potessi correre, fare una vita tutto sommato normale, avere figli. Certo, il mal di schiena è il mio perenne compagno di viaggio, ma posso ben dire di avere avuto una vita molto migliore di come era stata prevista al momento degli exit poll.

Credo in Dio ma, se quello che ho vissuto ha qualcosa a che fare con il destino, allora credo anche nel destino. Che poi, per chi crede, ciò che comunemente viene chiamato destino, potrebbe essere riassunto in ciò che Dio ha pensato per ognuno di noi nella storia dell’universo.

Da questo punto di vista, credo nel destino: credo che non abbiamo nessun merito o demerito per essere nati qui ed ora, per aver potuto o meno godere di determinate situazioni di partenza, per aver fatto degli incontri o per aver vissuto degli intoppi o potuto godere di occasioni inaspettate.

Raccontavo ieri della casualità dell’incontro con suor Maria Grazia e il Vides. Un incontro ‘improbabile’, ma che pure è successo e che ha cambiato la traiettoria della mia e di tante altre vite. Se questo è il destino, o la mano di Dio, non ho dubbi che esista.

Non credo, invece, nel destino o in un Dio che ha già deciso, prima che noi nascessimo, quale sarebbero state le tappe della nostra vita: mi sembra un’ipotesi deresponsabilizzante, che ci pone nella condizione di trasformarci in pupazzi inespressivi e passivi, comprimari della nostra stessa vita. Credo nel Dio cristiano perchè, oltre a metterci, senza la nostra volontà, in un qui ed ora, ci dà, da quel momento in poi, la libertà di vivere e di scegliere e perchè soprattutto, ci dà il compito, l’obbligo direi, di sfruttare i nostri talenti, di rendere utili le nostre vite.

E questo mandato, di sfruttare i nostri talenti, sarebbe di per sè, anche da solo, un bel programma per vivere una vita intera e piena. Perchè ognuno di noi li ha, ma non è sempre facile scoprirli. Perchè anche dopo averli scoperti, non è così automatico farli fruttare, visto che nel frattempo la vita, con le sue anse e le sue ripide, potrebbe averci portato a prendere altre strade, magari non troppo compatibili con la messa a valore delle nostre caratteristiche.

Ieri ascoltavo l’intervista allo scrittore Alessandro D’Avenia, guarda caso inviata da quella suor Maria Grazia che mi ha condotto e guidato anche al Vides. Mi ha colpito il fatto che, rivolgendosi ai ragazzi che erano venuti in un teatro per ascoltarlo, lui suggerisse di chiedersi cosa ciascuno di loro avesse di unico. Mi è sembrato un messaggio bellissimo, non solo come stimolo, ma anche per la radicale convinzione che ognuno di noi lo abbia.

Ascoltando, mi veniva da pensare che la parola ‘unico’, utilizzata in quel contesto, è neutra, non ha necessariamente un’accezione completamente positiva. Unica è anche una situazione data, dalla quale purtroppo non possiamo fuggire, ma che ci dà la forza e la determinazione per fare della nostra vita qualcosa di più e di meglio rispetto a quello che sembra probabile al momento del semaforo verde del via della corsa.

Perchè se il destino esiste, siamo anche e soprattutto noi, a decidere la destinazione.

Chi ero prima? E chi sarei stato, senza?

Ricordo ancora le sensazioni che provavo nei giorni precedenti alla mia partenza per Roccaforte del Greco, dove avrei vissuto la mia prima esperienza di volontariato con il Vides: attesa, incertezza, curiosità, gioia. Ma anche timore e dubbio: ce l’avrei fatta? Sarei stato in grado oppure sarei tornato deluso da me e dalle mie capacità?

Non era passato neanche un anno da quando suor Maria Grazia, la fondatrice del Vides, era venuta a casa mia durante un viaggio a Empoli per conoscere le famiglie dei ragazzi, fra i quali mio fratello, che erano stati in Messico l’anno prima con l’associazione. L’impressione, presentandomi e ascoltandola qualche minuto, era stata quella di una persona coinvolgente, spontanea, attenta e curiosa. Ciò nonostante, alla sua domanda se sarebbe piaciuto anche a me vivere un’esperienza come quella vissuta da mio fratello, risposi con fermezza di no. Non mi sembrava una cosa per me; ero certo che non sarei stato in grado e che mi sarei sentito a disagio.

Eppure l’estate successiva ero lì, pronto a partire per quei dieci giorni che, insieme ai tanti altri vissuti negli anni successivi in diverse parti del mondo, mi avrebbero fatto crescere più di ogni altra cosa o situazione vissuta in precedenza. E anche successivamente.

I momenti vissuti a Roccaforte, ma poi anche in Ungheria, Kenya, Angola, Brasile e Mozambico mi hanno fatto conoscere il mondo, certo, ma soprattutto mi hanno fatto conoscere meglio me stesso, delle parti di me che non conoscevo o che pensavo che mi avrebbero limitato in maniera definitiva.

Grazie al Vides ho visto con i miei occhi la povertà in alcuni dei posti più dimenticati del mondo, ma ho anche capito che per vederla non importa andare in Africa; per vederla è essenziale tenere gli occhi (e il cuore) aperti, perchè solo così sarà possibile coglierla anche vicino a casa nostra. Grazie al Vides ho conosciuto quel Dio che certe volte mi sembrava così nascosto e quella Buona Novella concretizzata nelle opere, prima ancora che nelle parole, delle suore che ci ospitavano nelle varie missioni. Grazie anche al Vides è nata la mia famiglia, e credo anche il mio lavoro attuale e l’impegno politico e sociale.

Oggi, a distanza di quasi trent’anni dalla prima volta, posso dire che il Vides, in qualche modo, è stata la start up della mia vita. Non solo c’è un prima e un dopo rispetto al momento in cui l’ho conosciuto, ma oggi, pensando a me prima di conoscerlo, mi chiedo chi fossi allora. E, soprattutto, chi sarei diventato se non lo avessi conosciuto.

Sicuramente sarei stata un’altra persona. E’ impossibile direi se sarei stato migliore o peggiore, ma certamente non avrei avuto modo di vivere momenti e situazioni che oggi ritengo che abbiano segnato di più e meglio il mio percorso di crescita.

Era il 1994

Nel 1994 i miei genitori erano due persone che vivevano del loro lavoro: entrambi dipendenti pubblici, non navigavano nell’oro, ma avevano un posto di lavoro sicuro, che dava loro la possibilità di campare i loro figli e di vivere una vita normale: qualche cena con gli amici, le vacanze d’estate, cambiare la macchina quando ce n’era effettiva necessità.

Avevano due figli ormai maggiorenni; io sono il più piccolo e proprio in quell’anno compivo i fatidici 18 anni. Erano nel periodo, insomma, i miei genitori, nel quale si completa il detto “figli piccoli problemi piccoli, figli grandi problemi grandi”. Loro in realtà qualche problema grande, con me, lo avevano avuto anche quando ero piccolo, ma questa è un’altra storia. Noi fratelli cominciavamo il periodo delle prima gite in macchina e dei ritorni a notte fonda nel fine settimana; loro, di conseguenza, iniziavano quello delle notti con poco sonno e con qualche preoccupazione.

Entrambi avevano perso i loro rispettivi padri, come me e Elisa oggi, e proprio l’anno prima, nel 1993, mia mamma aveva perso la sua, di madre.

Nel 1994 la mia mamma aveva l’età che ho io adesso. Anche io ho due figlie adolescenti, seppure di poco più piccole rispetto a me e mio fratello, allora. E un bambino ancora più piccolo.

Non ho un ricordo preciso di quell’anno, del 1994, ma ricordo bene che in quel periodo io cominciavo ad acquisire quel poco di sicurezza in me stesso e nel mio futuro che non avevo avuto fino ad allora.

Eravamo una famiglia felice e affiatata, come lo siamo sempre stata, con due genitori che facevano sentire la loro presenza anche e soprattutto investendo sulla nostra indipendenza.

I miei genitori, insomma, quando avevano l’età che ho io adesso, erano quei genitori che vorrei provare ad essere io per i miei figli.

Quanto conta il futuro?

Diceva Nietzsche che “il futuro condiziona il presente tanto quanto il passato”.

Questo succede quando i progetti che abbiamo ci sembrano così importanti da coinvolgere, e in dei casi sconvolgere, la nostra quotidianità.

Non sembra anche a voce che, oggi, l’unica cosa che condiziona il presente sia il presente stesso?

A me sembra che viviamo in un perenne presente, che fatica ad imparare dall’esperienza del presente appena diventato passato e, nello stesso tempo, ad immaginare e a lavorare per creare il presente che arriverà più o meno a breve, nel futuro.

Credo davvero, ma forse è un’immagine troppo pessimista, che se Nietzsche vivesse oggi scriverebbe “il futuro NON condiziona il presente, così come non lo condiziona il passato”.