Fra palco e realtà

La Via di cui si può parlare, non è la vera Via.

Laozi, Daodejing

Alla fine, si, è proprio difficile trovare il senso ultimo delle cose, perché c’è spesso molta differenza fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, fra ciò che facciamo e fra ciò che avremmo voluto realmente fare o comunicare con le nostre azioni.
Eppure non c’è altra soluzione al vivere, a provare ad essere ciò che vorremmo essere, a fare ciò che ci sembra più bello e più giusto.

Radici e ali: il nostro Natale che cambia

Anche quest’anno, con le nostre mamme, fratelli, cognate e nipoti ci siamo trovati a casa nostra per il pranzo di Natale. Una tradizione che si ripete ormai da diciotto anni, da quando io e Elisa siamo sposati. Una ricorrenza fatta di preparazione condivisa, di suddivisione dei compiti, di cura dei dettagli, pur nella semplicità.

Per noi, tutti, è un momento di festa in famiglia, che pur essendo sempre uguale a sè stesso, si ripete ogni anno con qualche novità, cercata o dettata dai fatti della vita.

Il primo cambiamento è stato quando sono nate le nostre figlie e nipoti. Addirittura, in uno dei primi Natale trascorsi insieme, ‘annunciammo’ il futuro arrivo di Miriam. Quando i bambini sono stati sufficientemente grandi da riuscire a scartare i regali, è arrivato anche Babbo Natale: si nascondevano i regali nello studio di mio fratello e poi il grande ‘vecchio’ arrivava dal giardino e distribuiva i giochi a tutti i bambini. Gli altri cambiamenti, purtroppo, sono stati quando è morto mio suocero e più recentemente mio padre. Ci siamo ritrovati a sedere a tavola con un cuore più grande, ma con qualche sedia vuota. Negli scorsi due anni si è aggiunto il babbo di Cisse, a completare la nostra famiglia extra large.

Con la crescita di figlie e nipoti Babbo Natale ha lasciato piano piano il posto a giochi più ‘terrestri’, ma la magia del Natale è rimasta intatta: ormai da alcuni anni abbiamo introdotto il calcio balilla e quest’anno addirittura il Mercante in Fiera personalizzato con foto di famiglia.

Riguardando le foto degli scorsi pranzi di Natale si vede chiaramente quanto i giovani sono cresciuti e, aimè, quanto sono invecchiati gli adulti. Ma si coglie anche, pur nella staticità delle fotografie, come il ‘clima’ sia rimasto lo stesso: allegro, gioioso, felice. Di come la famiglia si è adattata al tempo che passa, che lascia indietro anche un po’ di dolore, ma che dà anche spazio alla vita che nasce, che cresce e che lavora per trovare una strada propria.

E allora quest’anno mi sono scoperto ad immaginare un nuovo cambiamento. I ragazzi più grandi, ormai a breve, prenderanno la propria strada e non è assolutamente certo che i prossimi Natale si svolgeranno con le stesse ‘regole’ di oggi. Certo, vorrei che in futuro il numero dei partecipanti aumentasse di nuovo, magari coinvolgendo ragazzi e ragazze, fidanzati e fidanzate. Potendo solo sperarlo, ma non potendo fare poi molto affinchè questa speranza si realizzi, spero soprattutto che possa restare nelle nostre figlie e nipoti l’esempio di come può essere ‘facile’ fare famiglia, nella semplicità e nella cura. Di come la famiglia sia un albero che continua a crescere, con radici sempre più profonde e rami sempre più estesi. E anche se le foglie cambiano e cadono, la vita continua a scorrere, portando con sé nuovi frutti e nuovi fiori.

Giocando si impara

Giochi nella tua vita quotidiana? Cosa ti dicono le parole “tempo di gioco”?

Tutto col gioco, ma niente per gioco, diceva Baden Powell, il fondatore dello scoutismo.

Gioco, gioco molto. Gioco quando parlo con le persone, anche quando parlo di cose serie. Perché giocare non vuole dire non essere seri. Diffido molto di chi si mostra serio e sembra pensare che il gioco sia riservato ai ragazzi o agli sciocchi.

Anche per questo le parole “tempo di gioco” non mi piacciono molto, perché mi riportano alla teoria per la quale esiste un tempo definito per giocare e un altro, anch’esso ben delineato, nel quale non è possibile farlo.

Io invece penso che i giochi non debbano avere confini né di tempo né di spazio. Perché giocare è il modo migliore per capire le situazioni e conoscere gli altri. E anche sé stessi.

L’individuo nella folla: il peso del conformismo

Essere se stessi in un mondo che costantemente cerca di farti diventare qualcos’altro è la più grande conquista.

Chi non si è mai sentito fuori posto, come un pesce fuor d’acqua, in un mondo che sembra imporci modelli di comportamento e di pensiero predefiniti?

Riconoscersi ed essere riconosciuti per ciò che siamo, con i nostri pregi e difetti. Nella nostra unicità. Può sembrare un obiettivo scontato, ma è invece un tassello essenziale nella lotta contro la conformità e il conformismo che guidano la nostra società. Una società che mentre profetizza l’individualismo più assoluto, quasi slegato da qualsiasi visione di comunità che si riconosce, dall’altra ci accompagna verso un conformismo nel quale, appunto, far emergere la propria individualità diventa difficile, se non addirittura pericoloso.

Sarà per il fatto che, avendo figlie adolescenti, mi capita spesso di confrontarmi con la fascia probabilmente più fragile della popolazione; resto spesso impressionato dall’uniformità del modo di vestirsi e ancora di più del linguaggio: stessi modi di intercalare le frasi, stessi slogan per descrivere le situazioni. Un’uniformità che certe volte mette in imbarazzo anche me che mi limito da ascoltare.

I social media, potenti amplificatori delle nostre vite, hanno paradossalmente acuito il bisogno di conformismo. Dietro le facciate perfette che sfogliamo sui nostri schermi, si nasconde spesso un profondo senso di inadeguatezza. L’algoritmo, che ci propone contenuti sempre più personalizzati, rischia di creare delle vere e proprie ecocamere, dove le nostre convinzioni vengono rafforzate e le opinioni discordanti vengono silenziate. In questo contesto, avere il coraggio di esprimere la propria unicità diventa un atto rivoluzionario.

Siccome sappiamo bene che in un primo momento il conformismo è rilassante, perchè non ci chiede di metterci in mostra o di andare controcorrente, ma che poi nel medio e lungo periodo contribuisce a diminuire la nostra autostima e invece ad aumentare la necessità di ricevere approvazione da parte del nostro gruppo di riferimento, ecco che allenarci nel mostrare la propria individualità è fondamentale per la ricerca del proprio benessere, essenziale per poter essere poi attori protagonisti nel pezzo di mondo che ci troviamo a vivere.

In un mondo sempre più connesso ma allo stesso tempo frammentato, l’autenticità diventa un faro nella nebbia. È il nostro compito, come individui e come società, coltivare un terreno fertile dove l’unicità possa sbocciare e dove ognuno possa sentirsi libero di essere se stesso, senza paura del giudizio.

Quanto vale la gratuità

“Noi tutti prendiamo più sul serio ciò che costa che non quello che è gratuito.”

Non ha valore solo ciò che ha un costo. Ci sono cose che non hanno un prezzo, ma proprio per il fatto di non averlo danno valore alla nostra vita: le relazioni, i sentimenti, gli amori. I gesti gratuiti, quelli fatti senza aspettarsi niente in cambio.

Ciò che è gratuito non è necessariamente una cosa di minore qualità. È la gratuità, anzi, ad essere una delle qualità migliori.

Bisogna rieducarci al valore, a ciò che dà significato alla nostra vita e anche al nostro lavoro; riscoprire che quel significato va molto oltre la misura strettamente economica.

Migranti in Albania, un precedente pericoloso e una riduzione delle tutele

Riporto di seguito il comunicato stampa di Emergency (leggibile anche sul link https://www.emergency.it/comunicati-stampa/migranti-in-albania-emergency-ennesima-esternalizzazione-delle-frontiere-che-riduce-le-tutele-crea-disparita-e-spreca-fondi-pubblici/) relativo ai migranti arrivati in Italia e trasferiti in Albania su decisione unilaterale del governo italiano.

Per il solo fatto di aver tentato la traversata dalla Libia all’Italia spinti dalla disperazione si ritroveranno rinchiusi nel centro italiano di Gjader in Albania, anziché in un centro di prima accoglienza del nostro Paese. Sempre da lì dovranno presentare la loro domanda di asilo e, in caso di diniego, fare ricorso tramite avvocati che potranno vedere solo in video. Sono 12 dei 16 naufraghi originari di Bangladesh ed Egitto, paesi cosiddetti “sicuri”, che con lo sbarco di ieri hanno inaugurato i centri italiani nel porto di Shengjin e a Gjader previsti dal Protocollo d’intesa tra il nostro Paese e l’Albania.

Così in una nota EMERGENCY commenta lo scalo della nave Libra della Marina militare al porto di Shengjin in Albania.

Il Protocollo d’intesa tra Italia e Albania è una costosa operazione di propaganda che ha l’obiettivo di impedire ai migranti di mettere piede sul suolo italiano e che rischia di provocare violazioni di diritti umani e disparità di trattamento tra migranti che approdano in Italia e in Albania. Il focus dell’intesa ruota intorno al trasferimento e al trattenimento dei migranti soccorsi in acque internazionali dalle navi delle autorità italiane in un Paese che non fa parte dell’Ue e non è vincolato a rispettarne principi umanitari né normative” prosegue EMERGENCY.

 “Fare, come in questo caso, uno screening sommario di notte a bordo di una nave della Marina militare tra naufraghi vulnerabili da far approdare in Italia e quindi beneficiare di tutte le garanzie previste dal diritto italiano ed europeo, e naufraghi non vulnerabili da spedire in Albania è una pratica al limite del dirittoUna nave, infatti, non è un luogo adatto a questo scopo e uno screening realizzato in questo modo non può che essere approssimativo” continua EMERGENCY

riprova dell’approssimazione assoluta dello screening, a distanza di una manciata di ore dallo sbarco 4 dei 16 migranti trasferiti in Albania sono stati rispediti con una motovedetta a bordo della Libra con destinazione Italia: si tratta di 2 minori e 2 persone con problemi di salute.

“Inoltre – aggiunge l’Ong – per la sua collocazione geografica Shengjin, il porto deputato allo sbarco dei migranti che si trova nell’Albania del nord, non dovrebbe essere considerato ‘place of safety’ per chi viene soccorso nel Mediterraneo centrale: arrivare fin lì significa costringere i naufraghi a un viaggio più lungo del necessario,posticipando la richiesta di asilo e l’accesso a servizi essenziali, come cure mediche e supporto psicologicoEd è la stessa logica di divedere i migranti tra vulnerabili e non che contestiamo: tutte le persone soccorse in mare, in quanto naufraghe, dovrebbero essere considerate vulnerabili e raggiungere un luogo sicuro nel minor tempo possibile”.

 Con questo primo trasferimento diventa operativo il Protocollo di intesa Italia-Albania, che presenta diversi profili di illegittimità e ci pone di fronte a un nuovo capitolo dell’esternalizzazione delle frontiere. “Politiche che hanno già dimostrato di essere fallimentari per la protezione dei migranti e hanno incoraggiato la tratta di esseri umani e la ricerca di vie illegali per entrare in Europa, rendendo le traversate più pericolose. L’OIM ci dice infatti che sono oltre 24 mila i morti nel Mediterraneo Centrale dal 2014 ad oggi, di cui oltre 1.250 solo quest’anno – conclude EMERGENCY-.  Come se non bastasse questo accordo ha un ingente costo economico: circa un miliardo di euro che potrebbe essere usato per un’accoglienza dignitosa, progetti di cooperazione internazionale nei Paesi di origine e per creare vie legali di accesso in Europa”.

Le ribelli – Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore

In questo suo libro del 2006 Nando Dalla Chiesa descrive le storie di sei donne, diverse per nascita, condizione familiare, esperienze precedenti, ma accomunate dalla scelta di ribellarsi al potere mafioso e di condurre una vita all’insegna della testimonianza.

Queste donne sono madri o sorelle di persone che hanno segnato la loro storia e in qualche modo anche quella del Paese. Francesca Serio, madre del sindacalista contadino Salvatore Carnevale; Felicia Impastato, madre di Peppino, il protagonista de I cento passi; Saveria Antiochia, madre di Roberto, poliziotto ucciso insieme al commissario Ninni Cassarà. E poi Michela Buscemi, sorella di due fratelli uccisi dalla mafia; Rita Atria, sorella di un giovane boss dello spaccio e poi legata da un affetto filiale con il giudice Borsellino; Rita Borsellino, sorella proprio del giudice.

I fili conduttori di questi affreschi delle sei donne sono il coraggio e l’amore che riesce a rendere forte e inscalfibile il coraggio stesso.

Storie di donne, che mentre vengono raccontate descrivono anche la situazione di un Paese, dal dopoguerra ai giorni nostri, e di una regione, la Sicilia, che non sono mai riusciti, per mancanza di volontà, negligenza, paura a togliersi di dosso i lacci che li legano al potere mafioso. Storie controcorrente, quindi, e spesso legate a delusioni e sconfitte, ma nello stesso tempo esempi che hanno saputo provocare la reazione di tante persone, che per un periodo più o meno breve, hanno provato a costruire un protagonismo e una ribellione dal basso.

Il libro di Dalla Chiesa, infine, non è solo il racconto di alcune protagoniste della lotta alla mafia, ma è anche un appello a ciascuno di noi affinchè faccia la propria parte; affinchè ognuno di noi, nel proprio piccolo mondo quotidiano, tragga esempio per ribellarsi alla sopraffazione e alla violenza che in qualche misura permeano ancora la nostra società.

In pace

Cosa ti dona pace?

Un paesaggio di montagna, con il contrasto fra il verde acceso dell’erba, quello più forte dei larici e il grigio della roccia.

Il silenzio di una chiesa deserta, illuminata solo sulla croce sopra l’altare e sul tabernacolo.

La lettura di un libro la mattina presto, quando ancora tutti dormono.

Le sere d’estate in campagna in compagnia degli amici.