La pace fragile

La pace vegetale, come quella umana, è bellissima e grandiosa, ma fragile: ha bisogno di cura, di attenzione e di rispetto.

In giardino il susino è fiorito, avrebbe bisogno di essere potato, così mi ha consigliato un amico, ma anche quest’anno siamo arrivati tardi, la fioritura è arrivata troppo presto, rispetto a quando avrebbe dovuto, e il momento del taglio era già passato. Adesso non resta che aspettare e sperare che non arrivi una forte gelata primaverile che, come successe già lo scorso anno, brucerebbe i frutti, ancora troppo deboli per sopravvivere a sbalzi di temperature così importanti.

Lo stesso amico che mi ha consigliato la potatura, parlando della gelata dello scorso anno, ha cambiato la mia prospettiva di questa accadimento: il problema non è la gelata di marzo o dei primi di aprile, che è sempre stata piuttosto frequente, il problema, mi ha detto, è che le temperature primaverili iniziano i primi di febbraio, quando prima era già abbastanza se non nevicava. La fioritura delle piante, quindi, arriva troppo in anticipo e di conseguenza la gelata che fino a qualche anno fa non creava particolari problemi, può diventare devastante e definitiva.

E così il mio amico mi ha spiegato in poche parole che il cambiamento climatico è arrivato anche nel mio giardino, violandone in qualche modo la pace vegetale.

Per quanto riguarda la pace fra gli uomini la situazione è più o meno la stessa. Anche questa è meravigliosa e potente, ma fragile e ha bisogno delle stesse cure e attenzioni. Tante volte si sente dire in questi giorni che la pace è in pericolo e che il mondo rischia la guerra. Questo ragionamento è vero, in realtà, solo se si parla della possibilità di un conflitto mondiale. Perchè per il resto, purtroppo, sono ben pochi i luoghi del mondo che hanno conosciuto una pace duratura e in questi anni di guerre ce ne sono state a decine in ogni angolo del pianeta. La differenza che ci salta agli occhi in questi giorni non è tanto che la guerra si è avvicinata; del resto l’abbiamo avuta per anni in Libia, che è proprio davanti a noi, e non ci ha fatto molto effetto. La differenza sta nel fatto che oggi la guerra è vicina a noi dal punto di vista fisionomico, perchè coinvolge persone europee, nelle quali facciamo probabilmente meno fatica ad immedesimarsi fisicamente, e soprattutto perchè una delle parti in causa ha a disposizione armi nucleari che, per vicinanza geografica, potrebbe usare anche sul nostro continente.

Ecco quindi che in poche settimane abbiamo scoperto la fragilità della pace e quanto i conflitti mettono in discussione il nostro stile di vita e i nostri valori.

Vorrei, come tutti, che la guerra in Ucraina finisse il prima possibile con il suo enorme strascico di morte e di dolore. Ma vorrei anche che questo conflitto alle porte di casa ci facesse finalmente capire che la pace deve essere rafforzata sempre, anche quando è in pericolo in Paesi del mondo che non sapremmo collocare neanche sulla cartina geografica. Che crogiolarsi sul tenue calore di una pace precaria, ci espone alle intemperie di gelate improvvise, provenienti da altre zone nelle quali invece l’inverno della guerra è rigido e infinito.

La pace è fragile, solo proteggendola con cura e attenzione potrà venire fuori la sua maestosa bellezza.

Invasori, veri e presunti

La Russia sta concentrando le proprie truppe, circa 175 mila uomini, al confine con l’Ucraina, un Paese che fa parte dell’Europa, anche se non dell’Unione Europea.

Quindi, nel continente dei fili spinati, sistemati poco più a nord, fra Bielorussia e Polonia, per non far entrare i migranti che scappano dalla Siria e dall’Iraq, fa più paura qualche migliaio di profughi che la possibile invasione dell’esercito di Putin. Forse perché i migranti hanno solo quel poco che sono riusciti a portare con sé, mentre Putin si presenta con la minaccia del taglio delle forniture di gas, che forse metterebbe in ginocchio il suo Paese, ma molto probabilmente anche l’Europa stessa.

E così il Vecchio Continente si rivela forte con i deboli e debole con i forti. Perché è più facile, comporta un impegno minore e soprattutto, con un pensiero folle e miope, tiene lontano il problema dagli occhi e dalle menti dei cittadini dell’Unione. Almeno per ora.

Ricchezze contese, guerre dimenticate

Sono stato due volte in Mozambico, nella provincia di Cabo Delgado, nel 2006 e nel 2008. Era una zona molto povera, ma che viveva dignitosamente e in pace. I rapporti fra credenti di diverse religioni erano buoni, in molti casi di sostegno e di aiuto reciproco. Nel 2010 sulle coste di quella provincia, davanti alle bellissime spiagge di Pemba, è stato scoperto un enorme giacimento di gas naturale, che ha portato all’interesse di diverse multinazionali americane ed europee, le quali hanno investito circa 55 miliardi di dollari per l’estrazione di questi tesori naturali.
Di questa enorme ricchezza potenziale niente è arrivato alla gente comune, visto che 18,2 milioni di mozambicani, il 60% della popolazione, vivono ancora oggi in una situazione di povertà. In compenso il Mozambico è scivolato al 149° posto nell’indice di corruzione fra tutti i Paesi del mondo.
In questo contesto l’islam radicale ha saputo inserirsi, presentandosi come unica risposta alla povertà e allo sfruttamento portati avanti dagli occidentali, pretestuosamente e banalmente descritti come ‘crociati’. Dal 2017, in quegli stessi posti, va avanti un conflitto sanguinoso, che ha provocato oltre tremila morti e 800mila sfollati.
Questo è ciò che sta succedendo in Mozambico, ma situazioni analoghe si possono ritrovare in varie parti dell’Africa e di altri continenti.
L’occidente dal canto suo ha accettato questa banalizzazione del problema, che gli consente di polarizzare l’attenzione dei propri cittadini sull’Islam radicale e di soffiare sul fuoco della diffidenza e dello scontro ideologico e religioso.
Il punto centrale di questi conflitti, però, molto prima di essere religioso, è economico e politico, di sfruttamento di risorse e di territori, di corruzione di una classe dirigente piegata ai voleri delle potenze economiche mondiali. È il gioco sporco che viene fatto da molti, multinazionali, imprese, governi, per mantenere in piedi un sistema di sviluppo che, proprio perché profondamente iniquo, ha bisogno, per sopravvivere, di appoggiarsi su un livello di sfruttamento così spietato.

Scintille nella notte

La vetta di una montagna, rocce vicine ed aguzze,

solo guglie spoglie e imponenti.

Soltanto il cielo è pieno di vita e di colori:

blu, rosa, viola, soprattutto.

E poi le stelle, tante, luminose,

vicine fra loro e intente a illuminare la notte,

quasi per guardarci meglio.

Dalla prospettiva di una delle rocce più alte

i colori del cielo sono quelli di un incendio lontano,

del quale non si avverte il pericolo ma si ammira solo la bellezza.

E in questo fuoco del cielo le stelle sono scintille sparate nell’universo.

E la notte il set perfetto del grande film della vita nell’universo.

Sul crinale

Una gita in montagna incrinata da una discussione.

Sedute, voltandosi le spalle, divise dal basamento di una colonna eretta sul crinale chissà quanti secoli prima.

Le due ragazze sono vestite allo stesso modo: giubbotto di jeans, gonna lunga, scarpe comode da ginnastica, comode per una camminata durante la quale, chissà, è nata la discussione. Solo i colori sono diversi: una ha il giubbotto più scuro e la gonna amaranto, con dei motivi floreali, l’altra verde a scacchi divisi da righe bianche e nere che sembra un pareo africano.

La ragazza vestita di scuro i affaccia dal basamento e tende lo sguardo verso l’altra, che invece guarda nel vuoto, ma appare come in attesa, pronta, forse, a riprendere il dialogo. Il crinale di una montagna e di un’amicizia.

Poche idee, ma…confuse

Complice il periodo estivo e ancora vacanziero, sembra che ieri i politici nostrani abbiano fatto a gara a rilasciare più dichiarazioni possibili, e non è una novità, e a dimostrare di avere non molte idee ma particolarmente confuse. E anche questo, purtroppo, non è un fatto isolato.

Come spesso gli capita ha iniziato Matteo Salvini, affermando che è contrario all’obbligo vaccinale e quindi (secondo il suo percorso logico) a creare discriminazioni. Come se il vero discriminato non fosse chi soffre di una patologia che gli impedisce di vaccinarsi e non può andare a lavoro perché, magari, in quel contesto trova diverse persone che hanno ‘scelto’ di non tutelare la propria salute e quella degli altri.

Al podio delle dichiarazioni di giornata si è aggiunta quasi subito Giorgia Meloni, la quale, parlando della situazione in Afghanistan, ha chiarito che i corridoi umanitari non possono essere la soluzione, che potrebbe essere rappresentata invece da ‘un piano importante per sostenere le nazioni limitrofe’. Delle due l’una: o la leader di Fdi pensa che i Paesi confinanti siano culle di democrazia e di tutela di diritti, in quel caso anche sul nuovo set del Rinascimento saudita arriverebbe seconda, oppure, molto più semplicemente, se ne frega dei profughi e vuole soltanto spostarli un po’ più in là e lontani dai suoi (nostri) occhi. Solo una domanda: il piano importante, secondo Meloni, quanto ci costerebbe? Più o meno dei 35 euro che ha sventolato per anni sui migranti richiedenti asilo accolti in Italia?

Sul gradino più basso del podio arriva il ministro della Difesa Guerini, che ha candidamente ammesso che ‘gli eventi di questi giorni hanno sorpreso la comunità internazionale’. A parte il fatto che ce n’eravamo accorti, viene da chiedersi, e da chiedergli, come è stata possibile questa sorpresa così completa e cosa ci stavamo a fare in Afghanistan da vent’anni, se poi sono bastati quindici giorni a fare tornare la situazione di prima.

Fuori dal podio, perché fuori concorso, le dichiarazioni di Di Maio e, ancora, di Salvini. Entrambi ancora sull’Afghanistan.

Il ministro degli Esteri ha detto che i 20 anni in Afghanistan non sono stati vani, perché “abbiamo favorito più istruzione, diritti e libertà.” Ammesso che sia davvero andata così, ce ne stiamo andando perché ci siamo stancati e ci è venuto a noia? Della serie, ok, vi abbiamo fatto vedere i diritti e la libertà, adesso tornate dai vostri talebani.

Talebani con i quali, promette Salvini, non si dialoga. Perché i terroristi con i quali discutere si devono scegliere bene e con dei requisiti ben chiari. Sull’Arabia Saudita, per esempio, il consenso al dialogo è trasversale: nonostante che i terroristi dell’11 settembre fossero sauditi, che i diritti delle donne siano più o meno gli stessi, nulli, garantiti dai talebani e che quello sia il Paese nel quale un giornalista è entrato a piedi nella sua ambasciata e ne è uscito a pezzi dentro una valigia. Ma, si sa, anche il Rinascimento ha avuto i suoi momenti poco limpidi.

L’alibi della storia e la (cruda) realtà

Il presidente Biden, ieri, è intervenuto nuovamente sulla situazione in Afghanistan, sostenendo che la storia gli darà ragione.

Ho dei dubbi sul fatto che abbia ragione, mi sembra più evidente che si affidi ai giudizi della storia chi sa di avere la condanna del giudizio presente, della cronaca.

E la cronaca di oggi dice, lo affermano gli esperti delle Nazioni Unite, che l’Afghanistan sarà alla fame in poche settimane. Tutta colpa di Biden, allora? Assolutamente no, certo, ma ad essere onesti neanche tutta colpa dei talebani, che hanno fatto il loro tetro ritorno al potere pochi giorni fa. Le colpe maggiori, probabilmente, sono di coloro che non sono riusciti, o non hanno voluto, utilizzare questi vent’anni per stabilizzare il Paese e dargli delle chance di futuro e di libertà. Non solo dai talebani, ma anche dagli interessi occidentali.

Viviamo tempi difficili, nei quali avremmo bisogno di testimoni, più che di soloni.

Gino Strada un testimone lo era: attivo, coerente e lucido. E il fatto che nessuno dei Ministri in carica abbia voluto rendergli omaggio alla camera ardente allestita a Milano descrive meglio di mille parole i tempi sconnessi che stiamo vivendo: una scelta talmente inaccettabile da apparire quasi oscena.

In questo contesto appare difficile credere alle parole del presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, che ieri ha detto che, nonostante le inquietudini del tempo presente, un nuovo umanesimo è possibile. Non bisogna perdere la speranza, certo, ma mantenere un sano e doveroso realismo.

E a proposito di Speranza, ieri il Ministro della Salute ha detto che la pandemia deve servirci da lezione e che dobbiamo tornare ad investire sul servizio sanitario nazionale. Giusto! Ma, se non vogliamo che anche su questo il giudizio sia affidato alla storia, dobbiamo muoverci adesso, con dei fatti conseguenti alle parole spese.

Tre insegnamenti dalla situazione afgana

Dalle drammatiche vicende afgane mi sembra che emergano almeno tre insegnamenti importanti.

Il primo e forse il più evidente è che uno Stato non si crea con una guerra e con una successiva occupazione armata. Con una guerra, al massimo, si può sconfiggere un nemico. Quasi mai annientandolo, peraltro, come le vicende di questi giorni stanno dimostrando. Per la creazione di uno Stato libero, oltre alla sconfitta del tiranno, servono anche altri fattori, come la condivisione di valori comuni e il rispetto per le diversità che lo compongono.

Il percorso che porta a condividere valori e a rispettare le differenze, però, ed è il secondo insegnamento, è un percorso lungo, che non si abbrevia in alcun modo con il ricorso alle armi. A chi si opponeva all’intervento armato americano e poi della Nato in Afghanistan nel 2001, sostenendo che la democrazia non si esporta, e tanto meno con la forza, veniva spesso risposto che eravamo dei sognatori utopistici perché credevamo ancora nella forza e nella fatica del dialogo e della ribellione della maggioranza spesso silenziosa. Ci veniva detto anche che la costruzione di un’alternativa democratica dal basso avrebbe richiesto anni, mentre in quel momento era necessaria un’azione rapida e definitiva. Dopo vent’anni, ora che i talebani sono di nuovo al potere, è chiaro a tutti che quella risposta non è stata né rapida né definitiva, semplicemente perché la risposta a problemi complessi non prevede scorciatoie.

Il terzo insegnamento è che la libertà richiede libertà. Già nel 2006 le organizzazioni presenti in Afghanistan avevano condiviso un documento nel quale chiedevano di trasformare l’intervento occidentale, aumentando il ruolo delle organizzazioni che si occupano di sviluppo e di cooperazione e diminuendo quello dei militari. L’obiettivo di questa richiesta era proprio quello di favorire la crescita e lo sviluppo di una società civile autonoma, capace di porre fondamenta solide sulle quali costruire una società nuova e pacificata. Purtroppo quella richiesta non venne accolta e si preferì continuare a raccontare la retorica della libertà consegnata dagli eroi sui carri armati.

È evidente che questi tre mesi insegnamenti non siano ormai utilizzabili nel contesto afgano, ormai indirizzato verso un orizzonte del tutto nuovo e ancora non decifrabile. È altrettanto chiaro, però, che dovremmo fare tesoro di queste tre lezioni per evitare di trovarsi anche in futuro in un pasticcio inestricabile come quello che stiamo vivendo.

Bambini che ridono

Perché i bambini ridono tanto e spontaneamente? Perché non conoscono ancora i problemi della vita? Niente di più sbagliato. I problemi dei bambini sono proporzionati alla loro età, nel migliore dei casi, ma non per questo sono meno importanti di quelli degli adulti.

E allora, perche? I bambini ridono perché sono puri, perché hanno ancora dentro di loro un vago ricordo di Dio, perché sentono l’amore intorno a loro e di potersi fidare. Ecco perché forse dovremmo rivedere il nostro concetto di maturità, non come un percorso verso la seriosità, ma come un ritorno alla purezza del sorriso.

I bambini, quando arrivano, portano gioia per lo stesso motivo per il quale ridono: perché portano un alito di Dio sulla terra, perché sono una promessa di futuro e una traccia di immortalità.

Alla fine l’immortalità, forse, è proprio questa: la continuità dell’umanità nello sguardo innocente di un bambino.