Il valore della gratuità

“Quanto le devo?”, “Tanto vi dovevo”: che sia per pagare il rifornimento dell’auto o per concludere una lettera formale di lavoro, il ‘dovuto‘ caratterizza le nostre vite, quasi come se qualsiasi cosa noi facciamo avesse un prezzo e non potesse essere altrimenti. Eppure può essere altrimenti, dovrebbe esserlo.

Non tutto ciò che siamo lo abbiamo costruito con le nostre mani, molto anzi lo abbiamo ricevuto senza merito, dai nostri genitori, dalla nostra famiglia, dal nostro contesto. Da situazioni o persone che non abbiamo scelto ma nelle e con le quali ci siamo trovati ‘per caso’. Non abbiamo merito, per esempio, per essere nati e vissuti in quella che, pur con tutte le difficoltà che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, è la parte fortunata del mondo.

Ma quanto è difficile fare caso a quanto abbiamo senza merito. E’ difficile perchè, se riuscissimo a farlo, dovremmo uscire dalla dinamica del ‘tutto mi è dovuto’ a quella della gratuità e magari anche della gratitudine: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date“.

Mi vengono in mente le parole che noi, ragazzi, ripetevamo sempre quando tornavamo dalle esperienze di volontariato internazionale: “è molto più quello che ho ricevuto di quello che sono riuscito a dare“, dicevamo. E questo nonostante la povertà delle persone incontrate. Ed era realmente così, perché quelle esperienze hanno sicuramente cambiato maggiormente la nostra vita rispetto a quanto hanno cambiato quella delle persone che abbiamo incontrato. Ma cosa avevamo ricevuto di così importante? Avevamo ricevuto qualcosa che non si può comprare, che è preziosa proprio perché gratuita: la relazione, l’apprendere cose nuove, il calore di un sorriso e di una condivisione profonda. E’ questa la grande ricchezza di dare e ricevere gratuitamente: si guadagna un bene che non è misurabile con gli strumenti ordinari, economici, ma che ha un valore enorme in termini di benessere e di qualità della vita.

La ‘debole’ forza dell’esempio

Ricordo una volta in cui un uomo della mia parrocchia, durante una riunione, si mise a ‘sindacare’ sulla mia fede non avendone alcun diritto e nessuna competenza, visto che mi conosceva marginalmente. Ho davanti a me come se fosse adesso la decisione rabbiosa con la quale argomentava di cose che non conosceva, l’ardore sfrontato con cui faceva passare il suo ‘credere’ come l’unico possibile, la decisione con la quale rifiutava qualsiasi confronto e mediazione. Le sue parole, il suo atteggiamento di quel giorno, non la sua persona che per tanti altri aspetti era anche apprezzabile, hanno rappresentato per tanto tempo il modo attraverso il quale NON si comunicano i propri valori e convincimenti, tanto meno la propria fede.

Non c’entra niente essere morbidi sui valori, non è mostrando i muscoli che questi vengono portati avanti. Anzi, chi mostra i muscoli, spesso, non vuole portare avanti delle idee, ma soltanto mettere in mostra se stesso.

Le idee, i precetti, siano essi religiosi o civili, si portano avanti con l’esempio e non con la condanna, con la condivisione e non con la divisione. E’ più difficile, perchè forse in dei momenti può sembrare di essere ‘annacquati’e, ancora peggio, perchè bisogna agire, fare qualcosa, mostrare e mostrarsi. Troppo più facile, comodo ed esaltante stare sul pulpito e a lì pontificare, condannare, escludere.

I can’t breathe

Non si respira con un ginocchio sul collo, non c’è motivo di tenere un ginocchio sul collo di una persona in manette; non c’è motivo di tenerlo quando siete in quattro e lui è da solo. “Get him in the car”, dicono i passanti. L’ovvio come consiglio, “mettilo in macchina”, come ultimo appello all’umanità di chi dovrebbe proteggere la sicurezza di tutti e che invece sta appoggiato allo sportello con un ginocchio piantato nel collo di George. Chissà cosa aveva fatto George Floyd, 46 anni, nero, per meritarsi di stare sdraiato con un ginocchio sul collo, per non meritarsi neanche di essere arrestato, di essere condannato. Le immagini dell’arresto, quelle precedenti a lui sdraiato per terra, sembrano descrivere uno sbandato, già in manette, praticamente inoffensivo. Forse era pericoloso, sicuramente era nero. Come sono lontani i tempi di Obama presidente, della rivincita dei neri nei confronti di un passato crudele, di speranza verso un futuro di uguaglianza. Colpa di Trump, allora? No, certo. Certo che almeno un pensiero, una parola, da parte del twittatore seriale sarebbe stata gradita. Ma forse è troppo impegnato nella battaglia con chi gli ha praticamente dato del bugiardo in diretta ‘social’ mondiale.

Chissà cosa avrà pensato George prima di morire, se avrà sperato nell’aiuto di qualcuno, magari di qualcuno di quelli che hanno filmato la scena, e grazie ai quali abbiamo potuto anche noi vedere l’orrore, ma che non hanno alzato un dito per difenderlo. O forse avrà sperato in un momento di umanità da parte del poliziotto. “Get him in the car”.

E il poliziotto cosa avrà pensato? Gli occhi che guardano verso la telecamera sono occhi tranquilli, di chi non ha dubbi su quello che sta facendo, di chi si sente sicuro nonostante i tanti occhi addosso. Chissà se avrà pensato che anche questo è un uomo. E che il suo potere che scaturisce dall’uniforme non gli dà il potere di piantare un ginocchio nel collo di un uomo disarmato.

Restano tre parole, “I can’t breathe”, e un uomo sdraiato per terra, senza vita.

Un sabato pomeriggio di sole

Era un sabato pomeriggio di sole, proprio come oggi, il 23 maggio del 1992. Tornai a casa dopo una delle interminabili partite di calcio del sabato pomeriggio al campetto della parrocchia. Stanco ed assetato appena arrivai a casa mi fermai a bere un bicchiere d’acqua. In casa non c’era nessuno, accesi la tv. Quasi subito il programma di intrattenimento venne interrotto dalla sigla dell’edizione straordinaria del TG1. Un’affannata Angela Buttiglione dette la notizia dell’attentato e mostrò le prime immagini dell’apocalisse che era successa poche decine di minuti prima sull’autostrada che dall’aeroporto di Capaci porta a Palermo.

Il 23 maggio 1992 alle 17.58 gli strumenti di misurazione registrarono un terremoto nel territorio vicino a Palermo. Un sisma non provocato dall’imprevedibilità della natura, ma dalla mano crudele dell’uomo.

Un terremoto che scosse anche le coscienze, le istituzioni, il vivere civile di ognuno di noi. La politica fu finalmente in grado di eleggere il presidente della Repubblica. Da quel giorno tante persone cominciarono a capire che la lotta alla mafia non è una questione che riguarda pochi eroi radicati in una piccola porzione di territorio isolata dal resto del Paese, ma è una battaglia collettiva nella quale o siamo tutti impegnati a fare la nostra parte oppure siamo destinati a soccombere. Tutti.

E’ stato anche e soprattutto dopo quei 57 giorni, dal 23 maggio al 19 luglio, quando a perdere la vita furono Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta, che la società civile è riuscita a organizzarsi e a fare fronte comune contro la criminalità organizzata.

Sono passati 28 anni e la mia impressione è che quell’attenzione alta, quella voglia di riscatto civico abbia perso un po’ della sua spinta propulsiva. In questo periodo così difficile che ha cambiato radicalmente il nostro modo di vivere dobbiamo prendere consapevolezza che il percorso che abbiamo fatto in questi 28 anni è la cura per combattere il terribile virus delle mafie, ma purtroppo, anche in questo caso, non è il vaccino. La mafia con il suo portato di violenza e di sopraffazione non sono state sconfitte. Per questo non possiamo abbassare la guardia, perchè altrimenti il risultato sarà quello della sua immediata conquista del terreno perduto.

Non possiamo permetterlo, se non vogliamo che le parole che ognuno di noi utilizza in occasione delle ricorrenze del 23 maggio e del 19 luglio non diventino un inutile esercizio di retorica.

La ricchezza di chiedere

La ricchezza del povero è l’umiltà di saper chiedere, di sapersi mettere in relazione. Viceversa, la grande tragedia dell’opulenza del nostro mondo ricco è quella di specchiarsi continuamente nella propria potenza e nell’ossessione di preservarla e proteggerla. Nascono da qui i muri di difesa, di quelli esterni e visibili ma anche di quelli interiori e più nascosti.

E’ solo nei momenti di fragilità che si prende consapevolezza della nostra limitatezza e ‘ci si abbassa’ a chiedere aiuto, che sia a Dio o al nostro prossimo.

Il mandorlo e noi

Io e Miriam, quando mangiamo un dolce con sopra delle mandorle, ce le contendiamo sempre perchè ne siamo entrambi golosissimi.

Il percorso che porta alla maturazione di questi frutti deliziosi rappresentano bene il periodo che stiamo vivendo: il mandorlo, infatti, è il primo albero che fiorisce e l’ultimo dal quale si raccolgono i frutti. Fra la fioritura e la raccolta passano mesi di attesa, ogni anno diversi fra loro: ci sono periodi di piogge forti e altri di siccità o di vento, periodi caldi e altri più freddi; tutti sono fondamentali per arrivare alla nascita dei suoi frutti.

I periodi di attesa, come quelli che stiamo vivendo, sono così anche per noi, anche se spesso non ci sembra: ci sono giorni belli e spiacevoli, momenti di gioia e altri di sofferenza; tutti sono fondamentali per arrivare a raccogliere i frutti della nostra attesa. Sta a noi saper valorizzare l’importanza di ogni momento e soprattutto cogliere la nascita dei primi frutti. In fondo, se noi tendiamo a concentrarci solo sui momenti difficili dell’attesa è soltanto perchè, a differenza del mandorlo, abbiamo perso l’abitudine di attendere.

Vera libertà?

La libertà che oggi ci manca è così evidente che è proprio impossibile non notarla; è fisica, tangibile.

Ma quando finalmente saremo ‘liberi’, lo saremo veramente?

Saranno liberi i bambini che non potranno tornare a scuola e a quel punto non avranno più neanche i genitori, nel frattempo tornati a lavoro, ad accompagnarli nel mondo nuovo e difficile della didattica a distanza?

E saranno liberi i genitori che, viceversa, potranno dedicarsi completamente ai figli, soltanto perchè per colpa di questa pandemia avranno nel frattempo perso il lavoro?

E lo saranno gli anziani che, forse, potranno uscire di casa ma senza quasi avvicinarsi a nessuno, in quanto soggetti fragili, e tanto meno ai nipoti, ‘untori perfetti’?

E allora, mi si dirà, dobbiamo andare avanti così, reclusi? Assolutamente no. E’ giusto che i bambini tornino a correre e giocare all’aperto, gli adulti, i più fortunati, a lavoro e gli anziani quanto meno a passeggiare.

Purtroppo però la libertà è qualcosa di più complesso del ‘semplice’ uscire di casa. E liberarci di tutti quei nuovi bisogni e imposizioni che questa pandemia ha portato con sè sarà un lavoro ancora più lungo e difficile.

Una scoperta, lenta ma totale

Ho già scritto in un altro post che non sono stato io a cercare il Vides, la ong con la quale ho fatto esperienze di volontariato internazionale in diverse parti del mondo, ma che, in qualche modo, è stato il Vides a cercare me. Quando suor Maria Grazia venne a casa mia io non avevo alcuna intenzione di partire per esperienze di questo tipo. Il motivo era piuttosto semplice: non mi sembravano situazioni adeguate, non avevo mai pensato di farle e avevo visto con un certo distacco anche mio fratello e i suoi amici che le avevano fatte l’estate precedente.

Se riguardo adesso il percorso indietro nel tempo scopra che aveva davvero ragione Cesare Pavese quando diceva “mi sono accorto sovente che ciò che scoprirò valere e importare di più, comincia sempre col dispiacermi e ripugnarmi.”

Non ricordo con precisione cosa mi ha sbloccato in quella convinzione così ferrea: probabilmente quel giorno si piantò in me un seme, senza che io me ne accorgessi. E enne piantato grazie alla semplicità di un incontro, dalla condivisione dell’esperienza da parte dei volontari. Quel seme poi si sviluppò nelle settimane successive grazie soprattutto all’interesse che vedevo crescere anche nei miei amici più stretti, conquistati dai racconti e dall’entusiasmo dei ragazzi più grandi, che continuava a crescere, invece che diminuire. Erano tornati alla loro vita quotidiana, certo, ma lo avevano fatto con una consapevolezza diversa, quella di poter essere, anche nella loro ‘piccola’ realtà cittadina, promotori e protagonisti di un cambiamento.

Con-dividere moltiplica (la gioia)

Sarà perchè sono sempre stato una ‘buona forchetta’ e praticamente non ho cibi che non mi piacciono, ma ho sempre amato le cene con gli amici nelle quali ognuno porta qualcosa da mangiare. Di queste feste enogastronomiche, oltre al fatto che c’è varietà e abbondanza di cibo, mi piace soprattutto che ognuno valorizza ciò che sa fare meglio, e magari scopre di sapere fare qualcosa di buono, e che si crea un bel clima di condivisione, grazie al quale il peso della preparazione non è lasciato solo sulle spalle del padrone di casa ma è ‘in carico’ a tutti.

Consapevolezza dei nostri talenti, valorizzazione della diversità, condivisione. Alla fine posso dire che amo questo tipo di cene perchè rappresentano la realtà che mi piace; quella nel quale mettere a disposizione le nostre ricchezze e i nostri talenti crea un’abbondanza che mancherebbe completamente se ognuno stesse confinato nel proprio spazio.

Condividere le proprie capacità non crea soltanto un bel clima, ma migliora la qualità della nostra società, perchè ci fa passare dallo stile di vita ‘delegante’, nel quale la nostra sensazione di non essere in grado di dare un contributo diventa un alibi per delegare le situazioni importanti agli altri, anche per poter dire in caso di risultati negativi “io non c’ero” o, peggio, “io lo avevo detto”, ad una corresponsabilità, ad una condivisione delle scelte e delle conseguenze. Anzi, ancora di più: il clima positivo che si crea in questi momenti ci porta ad alleggerire il peso di chi eventualmente sbaglia. Così come in una cena nella quale ognuno porta qualcosa, nessuno si permetterebbe mai di criticare una pietanza venuta male, perchè si riconoscerebbe prima di tutto l’impegno nel garantire il benessere di tutti, allo stesso modo, nel nostro impegno quotidiano, quando regna la condivisione, tutti arrivano a prendersi carico dell’errore di uno.

Condividere, insomma, ci rende più belli e ci rende più consapevoli delle nostre capacità e ci aiuta a vivere con gioia.

Dare senso al tempo

Mai come in questo periodo abbiamo del tempo a disposizione, ma, allo stesso modo, mai come oggi ci sembra di sprecare quello che abbiamo a disposizione. E questo succede, molto semplicemente, perchè il tempo non è solo lo scorrere inesorabile delle ore; quello che dà senso al nostro vivere è avere un motivo per alzare la testa, per superare il tempo presente e proiettarlo nel futuro. Avere un progetto, insomma.

Proprio vivendo questi giorni monotoni e talvolta vuoti riesco adesso un po’ a comprendere l’atteggiamento che ho visto spesso in alcuni dei ragazzi richiedenti asilo con i quali lavoro. Quante volte il loro ‘ciondolare’ fra le varie stanze della struttura, la loro apatia, la loro difficoltà ad essere assorbiti da qualcosa mi ha dato fastidio e mi ha fatto arrabbiare. Eppure sono passati da situazioni, storie incredibili, pensavo, perchè non si danno da fare per conquistarsi un futuro? Oggi capisco che, quando veniamo proiettati in un mondo così diverso da quello nel quale siamo abituati a vivere, non è facile orientarsi e rimettersi subito in cammino. ‘Imparate, studiate l’italiano!’, ho detto loro centinaia di volte. Certo, vero, è importantissimo, ma se è legato ad un obiettivo, ad un progetto. Ad un lavoro, in questo caso. Altrimenti perchè un giovane, spesso poco scolarizzato, dovrebbe buttarsi in un’avventura così difficile?

Potrebbe sembrare indulgenza nei loro confronti, classica di un buonista patentato, ma, se indulgenza si tratta, è solo nei miei confronti, impegnato a vivere questi giorni monotoni. In realtà è solo la consapevolezza che il tempo non è un valore in sè, ma lo è nella misura in cui riusciamo a trovare qualcosa per la quale valga la pena vivere bene l’oggi e preparare il domani.