Rosario Livatino, “martire per la giustizia”

Sta nelle beatitudini evangeliche il motivo per cui il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990, sarà proclamato Beato; sta in particolare in quelle che recitano “Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli” e “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.”

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Livatino, dopo un percorso di studi eccellente, che lo aveva portato giovanissimo in magistratura, era stato fra i primi ad applicare la legge Rognoni-La Torre, che prevedeva la confisca dei beni sequestrati ai mafiosi: una conquista epocale per lo Stato di diritto, una svolta che il deputato del Partito Comunista aveva pagato con la vita. Il giovane giudice era stato retto e inflessibile nell’applicare questo nuovo strumento, fedele alla Costituzione sulla quale aveva giurato e alla giustizia evangelica che era sempre stata il suo faro.

Vedo nero nel mio futuro, che Dio mi perdoni”, aveva detto, forse prevedendo la fine che si stava avvicinando per aver toccato interessi troppo importanti per i mafiosi locali. Nonostante questo aveva continuato a viaggiare senza scorta, per non mettere in pericolo, diceva, altri padri di famiglia.

La sua fede profonda si incarnava anche nel modo in cui svolgeva il suo lavoro. Diceva: “quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.” E allora la sua credibilità, come magistrato e come credente, la esercitava facendo giustizia, applicando la legge e il Vangelo, consapevole di quanto la mafia offendesse la dignità umana e lo sviluppo del suo popolo.

L’agguato avvenne sulla strada fra Canicattì e Agrigento. Ferito, provò a fuggire nei campi inseguito dai suoi assassini, ma venne raggiunto e ucciso.

Sull’agenda ritrovata sul luogo del delitto, alla prima pagina, c’erano scritte le lettere STD che significano “Sub Tutela Dei”.

Viviamo un tempo nel quale avremmo sempre più bisogno di testimoni, di persone che siano capaci di incarnare i valori non solo e non tanto annunciandoli, ma vivendoli e concretizzandoli quotidianamente. Sarebbe bello se questo momento così significativo dal punto di vista della fede cristiana, la beatificazione di un giovane magistrato ucciso, potesse costituire lo stimolo anche per una riflessione profonda sul coraggio e l’esempio di quella ‘conversione civile’, intesa come cambiamento radicale rispetto ad una mentalità e ad un sistema di potere largamente diffusi nel suo contesto di vita, della quale Rosario Livatino è stato protagonista fino al martirio.

I colori della solidarietà

I 3 gruppi scout di Empoli, insieme ad altre associazioni del territorio (Re.So., Misericordia, Pubbliche Assistenze, Vecchie e Nuove Povertà) hanno promosso e organizzato la realizzazione e la distribuzione di ‘Scatole di Natale’ da donare alle famiglie e alle persone in situazione di difficoltà economica. All’interno della scatola potevano essere inseriti accessori di abbigliamento ‘caldi’ (guanti, sciarpe, cappelli), un dolce, un oggetto per passare il tempo (come un gioco o un libro) e un prodotto per l’igiene personale. Due cose mi hanno colpito in particolar modo di questa iniziativa. La prima è la convinzione che anche oggi, anzi, proprio oggi, nonostante le tante preoccupazioni, è possibile essere vicini alle persone maggiormente in difficoltà. La seconda è stata la conferma del fatto che la solidarietà, quando si mette in modo, è contagiosa: alla fine della raccolta le scatole donate sono state più di 600!

Il tratto distintivo di questo periodo, molte volte , è quello di una vita vissuta fra parentesi: fra un mondo precedente che adesso ricordiamo con nostalgia, anche se poi, mentre lo vivevamo, non è che a molti piacesse un granchè, e un futuro pieno di incognite che, pur pensandoci bene, non riusciamo proprio ad immaginare. In mezzo fra un passato e un futuro che sembrano sempre più lontani, in un presente allungato, la nostra quotidianità rischia di essere in bianco e nero, quasi sfumata, senza quei picchi di colore che danno sapore alla vita.

Eppure l’iniziativa promossa dai gruppi scout, che ha visto protagonisti in principal modo ragazzi fra i 16 e i 21 anni, dimostra che anche oggi è possibile colorare le nostre vite con i colori della solidarietà. Per farlo, io credo, è necessario togliere quelle parentesi fra il prima e il dopo: questo tempo esiste, non lo abbiamo scelto, ma è presente e sta anche a noi decidere se dargli colore o lasciarlo buio. Togliere la parentesi vuol dire smettere di badare solo a noi, ripiegati su sé stessi, guardarsi attorno e vedere che sì, anche in un momento così difficile, è possibile essere utili e dare senso a questi giorni.

Se rimettiamo la scena di questi mesi all’interno del quadro della vita, pur non capendone ancora il senso, riusciamo a ricostruire un contesto fatto di persone, di luoghi, di immagini che riconosciamo e che forse ci aiutano ad orientarci.

I colori, in un dipinto, evidenziano le differenze e le armonizzano; un quadro senza colori molto spesso, invece, sembra incompleto. Non è semplice, ma possiamo mettere colori anche sulla tela di questi giorni, armonizzarli fra loro e in qualche modo produrre l’alchimia della bellezza.

Finirà

Sono una persona che rimane difficilmente senza parole, non perché abbia chissà quali capacità oratorie o perché non abbia timori o paure, ma semplicemente perché, anche di fronte alle situazioni impensate o alle emozioni forti, le esprime o le esorcizza parlando.

Perché le parole alcune volte servono anche a questo, a darci la sensazione che stiamo superando un problema, che stiamo vincendo, anche quando nella realtà questa difficoltà ci sembra insormontabile. Guardiamo la vicenda del Covid: non esiste un giornale, una televisione, ma anche una giornata di lavoro o una telefonata con gli amici durante le quali riusciamo a non entrare in questo argomento. Certamente, la paura, il timore di essere contagiati, il numero di morti paragonabili a quello di una guerra; tutto questo, insieme alla fatica di un periodo ormai troppo lungo, ci spinge a parlarne in continuazione. Ma, oltre a questo, c’è anche la voglia di esorcizzare questa preoccupazione, come se già parlarne aiutasse a superarla.

“Andrà tutto bene”, ci siamo detti durante il primo lockdown. Io sono stato subito contrario a questo slogan, perché lo ritengo egoista e falso. Come si fa a dire che andrà tutto bene di fronte a decine di migliaia di morti? Il solo fatto che io, forse, non morirò giustifica il fatto che per me andrà tutto bene? Non è già andato tutto bene, anzi, è andato tutto molto molto male, nonostante l’impegno e l’impagabile servizio di tante donne e uomini che hanno lavorato assiduamente per bloccare questo virus maledetto.

“Andrà tutto bene” è stato lo slogan di una situazione che ci aveva lasciato senza parole e con il quale abbiamo reagito dandoci speranza. O forse è stato ‘soltanto’ lo slogan opposto a quello che molti di noi hanno provato durante le settimane e i mesi che si sono susseguiti: ‘è finita’. Per qualcuno è finita la vita, in alcuni casi nel giro di pochi giorni e partendo da una situazione di salute; per altri è finito il lavoro e con questo la capacità di provvedere ai propri bisogni e a quelli dei propri cari; per tutti è finita una situazione di spensieratezza. Tutti abbiamo dovuto in qualche modo confrontarci con il pensiero della malattia e della morte.

Niente sarà più come prima, anche dopo che questa emergenza sarà finita. Ma questa evidenza, questa situazione, non è necessariamente un dramma: continuo a sperare, anche se alcuni fatti indurrebbero a pensare il contrario, che usciremo da questa situazione più consapevoli dei nostri limiti e più desiderosi di concentrarci sulle cose essenziali della vita, tralasciando quelle superflue delle quali spesso eravamo colmi.

Forse, se proprio vogliamo trovarne una di parole adatte a questo periodo, questa è ‘finirà’: è una constatazione oggettiva, perché come tutte le pandemie della storia anche questa si esaurirà; non è soggettiva, perché finirà al di là del fatto che ciascuno di noi potrà vederne la fine; ed è neutra, perché è rassicurante rispetto alla fine del virus, ma non fa previsioni azzardate su come ne usciremo.

Finirà, quindi. Come, in che modo e con quali esiti e conseguenze sta anche noi determinarlo.

Una tappa importante

L’11 dicembre l’organizzazione per la quale lavoro ha concluso il servizio di accoglienza per richiedenti asilo, un percorso iniziato nel novembre del 2015.

Cinque anni sono un periodo di tempo più che sufficiente per poter dare un giudizio complessivo, un bilancio, che può tener conto di tanti fattori e che, come spesso succede, è carico di luci e di ombre, di aspetti positivi e di criticità.

Di sicuro, tanto per cominciare, abbiamo lavorato in questi anni nell’ambito, nel settore più malvisto dall’opinione pubblica, con una diffidenza e una contrarietà diffusa, fomentata in modo sconsiderato e irresponsabile da leader politici che, per un non breve periodo, hanno anche avuto altissime responsabilità istituzionali.

Credo però che, nonostante il discredito diffuso e spesso in malafede, questo lungo periodo, per la nostra come per le altre organizzazioni del territorio dell’empolese valdarno valdelsa, abbia visto l’impegno, la passione e la professionalità di tante persone, che hanno cercato di portare avanti e a termine il proprio lavoro aggiungendo quel di più di spirito di servizio e di ‘fedeltà alla causa’ che, in non poche occasioni, è stato un vero valore aggiunto. Nel tempo si è anche rafforzata e strutturata una collaborazione fattiva con le Istituzioni, all’inizio resa difficile da una situazione del tutto nuova, nei numeri e nelle modalità di accoglienza, ma che poi ha portato ad un miglioramento e ad una facilitazione dell’integrazione delle persone accolte. In questi anni, soprattutto, si sono creati legami importanti con persone che all’inizio ci sono ‘toccate in sorte’ (noi non avevamo scelto loro, loro non ci avevano scelti) ma con le quali siamo riusciti a creare, spesso grazie a loro, un rapporto di fiducia e di crescita, umana e professionale, che è alla base di qualsiasi risultato e che è il presupposto essenziale affinchè chi lavora in questo ambito possa esprimere quel valore aggiunto di cui dicevo.

Personalmente l’esperienza di questi anni è servita anche per concretizzare quel concetto, altrimenti vago, di ‘accoglienza delle persone migranti’ in una condivisione di un pezzo di strada con persone in carne e ossa, con un nome e un cognome, e soprattutto una storia, che era iniziata prima che ci conoscessimo e che continuerà anche alla fine di questo percorso e indipendentemente da me e da noi. Alla fine, io credo, sta qui il ‘riconoscere dignità’: sapere e riconoscere una persona, qualunque persona, come titolare di diritti, aspettative, doveri, sogni, indipendentemente dallo status giuridico al quale è legato.

Certo, ci sono stati anche tanti aspetti critici, tante ombre. La prima, io credo, è stata quella di non essere stati capaci, come sistema, di capire in tempo il clima che qualcuno scientemente stava creando e di conseguenza di saper rispondere, nel merito e nella sostanza, alle tante, troppe, fandonia e stupidaggini che venivano sparse ai quattro venti. Tanti di noi lo hanno fatto, ma troppo spesso singolarmente, senza avere la forza di farlo insieme, in modo tale da essere più credibili e da avere una voce più forte.

Non ha aiutato, da questo punto di vista, il non essere mai completamente usciti, anche per scelte politiche sbagliate e colpevoli, da quel clima di ‘gestione dell’emergenza‘ che, comprensibile e logico in un primo periodo, non ha più alcun senso ormai da qualche anno. Io sono sicuro, per esempio, che se avessimo superato prima la logica dell’emergenza saremmo stati maggiormente in grado di vedere e di isolare le poche, ma purtroppo non inesistenti, ‘pecore nere’ che non avevano messo al centro del loro operare l’accoglienza e l’integrazione delle persone, ma un business costruito proprio sulle spalle delle persone che avrebbero dovuto tutelare.

Errori, aspetti da migliorare, certo, come in ogni vicenda che va avanti per degli anni. Ma credo di poter dire con ragionevole certezza, che, se oggi in questo territorio ci sono due Sprar (successivamente Siproimi, adesso Sai) e altri progetti finanziati dal Ministero dell’Interno e da altre Istituzioni territoriali sia anche e soprattutto grazie all’esperienza di questi anni e a quello che questa ha portato, in termini di conoscenza della materia, di avvio di un lavoro di rete, di capacità di affrontare i problemi e di provare, magari insieme, a risolverli.

Si chiude, quindi, un periodo lungo e intenso, ma non finisce il percorso che abbiamo iniziato nel 2015; anzi, prosegue in altre direzioni e probabilmente con altri strumenti, con l’obiettivo di dare una forma nuova e più strutturata all’esperienza fatta e di contribuire quindi, insieme a tutte le tantissime e variegate realtà presenti in giro per il Pase, a rimettere i temi dell’immigrazione, dell’integrazione, della giusta accoglienza al centro del dibattito politico e culturale, evitando facili ma pericolose scorciatoie. Arrivando, magari ad una riforma organica di questa materia, unica soluzione che può dare una risposta certa e duratura, al contrario delle toppe emergenziali, che possono servire a gestire il presente ma che non consentono di immaginare un futuro e una prospettiva da seguire.

“Liberi ed eguali in dignità e diritti”

Durante la mia esperienza di volontariato in Angola, un giorno, era l’agosto del 2002, ebbi la possibilità di parlare di Diritti Umani con alcuni ragazzi che frequentavano la scuola delle suore della missione che ci ospitava, l’unica nel raggio di diverse decine di chilometri.

Ricordo quel giorno perchè rimasi sconvolto del fatto che quei giovani aspiravano a godere di diritti che, nella nostra parte di mondo, davamo ormai per scontati: il diritto al gioco, quello a camminare liberamente sulla spiaggia che si trovava proprio di fronte alle loro baracche, il diritto di poter studiare. L’Angola, il loro Paese, era uscito da quattro mesi da una guerra civile che era andata avanti per più di venticinque anni; per questi ragazzi, quindi, quei quattro mesi erano i primi vissuti senza il pericolo di bombardamenti, di uccisioni, di violenze. Il primo periodo di pace, insomma. Una pace ancora fragile: per le strade della capitale, quando si usciva dal centro, si vedevano ancora dei carri armati che presidiavano il territorio, qualche notte sentimmo anche degli spari isolati. Ma per la prima volta dopo tanti anni la situazione era tutto sommato abbastanza tranquilla.

La testimonianza diretta di quei giovani mi fece scontrare con l’evidenza che la guerra, la povertà, l’insicurezza, avevano minato fin dall’inizio della loro vita il loro diritto all’autodeterminazione, il diritto di decidere e di ‘costruire’ la persona che avrebbero voluto diventare.

Racconto questo episodio proprio oggi, perchè è la Giornata mondiale dei diritti umani, che si celebra il 10 dicembre di ogni anno, nel giorno nel quale, nel 1948, venne proclamata da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un documento scritto e pubblicato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando l’umanità provava a rimettersi in piedi dopo anni di distruzione, milioni di morti e l’abominio dell’Olocausto. Proprio in virtù di quello che il mondo aveva appena vissuto, l’Assemblea delle Nazioni Unite volle sancire in 30 articoli il diritto di ogni essere umano ad esprimere la propria persona e di essere tutelato per come realmente è senza discriminazioni e violenze.

Fu proprio durante quelle settimane in Angola, e qualche anno prima, sempre in una esperienza di volontariato, in Brasile che compresi per la prima volta il valore inestimabile dei diritti esplicitati in quella dichiarazione e di quanto anche quelli più elementari, compreso quello alla vita, fossero ogni giorno messi in discussione per tante, troppe, persone. Avevo la fortuna e, nonostante il periodo difficile che stiamo vivendo, ce l’ho ancora di abitare in una parte del mondo nella quale da diversi decenni non conosciamo la guerra e viviamo in una situazione di serenità e di prosperità.

Ma, ancora oggi, sono milioni le persone che vivono in luoghi di guerra e che non hanno visto realizzati i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale; segno evidente che i valori, i principi, per quanto importanti e nobili, se non viaggiano sulle gambe e nei cuori degli uomini, rischiano di restare parole retoriche, magari altisonanti, ma alla fine sostanzialmente inutili. Un motivo in più per non darli per scontati e per continuare a ribadire, con le parole, ma soprattutto con le azioni concrete, che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”

Un acquisto rivoluzionario

Una mia amica ha appena messo su Facebook la foto di due biglietti per un concerto che si terrà il 25 luglio del prossimo anno. Fra sette mesi, quindi. Un gesto, un acquisto, quasi scontato, banale fino ad un anno fa, ma oggi rivoluzionario e carico di un significato profondo.

Leggendo quel post e guardando quella foto mi è venuta in mente una frase della Canzone della bambina portoghese di Francesco Guccini, nella parte in cui dice: quel vizio che ti ucciderà non sarà fumare o bere, ma il qualcosa che ti porti dentro, cioè vivere.”

Abbiamo un bisogno morboso (un ‘vizio’) di vivere, di sentirci e vederci vivere. E tanto più lo abbiamo in un periodo nel quale viviamo un senso di profondo e costate disagio, di inquietudine dovuta alla preoccupazione per la situazione che stiamo vivendo, per il pericolo di ammalarsi o di vedere ammalare i nostri cari e per l’incertezza sul futuro e sul disastro economico e sociale che questa situazione sta portando e porterà con sè.

E’ per questo che abbiamo bisogno di sollievo, abbiamo bisogno di non piegarci a questo ‘oggi’ così complesso e di scommettere in un ‘domani’ migliore, di credere in un futuro nel quale potremo tornare a fare le cose che amavamo, magari non subito allo stesso modo, ma almeno con la stessa passione e in sicurezza.

E allora quale scommessa migliore di un concerto: la musica, che sa esprimere sensazioni e sentimenti meglio di tante parole, e insieme ad una comunità che si riconosce in quel messaggio.

In quale mondo vivremo il 25 luglio del prossimo anno? Saremo fuori dal tunnel o ancora in mezzo al guado? Non lo sappiamo, nè io nè la mia amica. Ma il suo semplice gesto di ‘ottimismo‘, come lo ha descritto lei nel post, ha dato un orizzonte di sollievo anche al mio ‘vizio di vivere’.

Abbiamo perso

Quando una persona, un povero, muore, senza aiuto, sul marciapiede di una strada della nostra città, abbiamo perso, tutti. Hanno perso le Istituzioni, che evidentemente non sono riuscite a tenere questa persona all’interno di un percorso di protezione. Hanno perso le associazioni che in città si occupano di accoglienza e di sostegno nei confronti dei poveri, perchè non sono riuscite a salvare questa povera vita. Ha perso la Chiesa e tutti noi credenti, che troviamo una parte importante del senso della nostra fede nel tentativo di concretizzare le opere di Misericordia e che in questo caso non siamo stati in grado nè di vedere nè di sostenere, di amare, il prossimo. Ha perso ciascuno di noi che, ogni giorno o più saltuariamente, è passato accanto a questa persona, che si dice frequentasse sempre gli stessi posti, senza chiedersi chi fosse, quali problemi avesse e cosa potessimo fare per lui.

Ecco. Cosa avremmo potuto fare? Cosa possiamo fare? Perchè se è vero che abbiamo perso tutti, anche se certamente con diversi livelli di responsabilità, non possiamo pensare di evitare la riflessione scaricando la responsabilità su qualcun altro e solo perchè sta su un gradino di responsabilità un pochino più alta della nostra.

La nostra è una città dal cuore grande, nella quale sono innumerevoli i progetti che si occupano delle fasce più fragili della popolazione: tanti e spesso di grande valore. Eppure, evidentemente, non bastano più e basteranno sempre meno via via che la crisi sanitaria che stiamo vivendo si trasformerà sempre e ancora di più in crisi economica e sociale. Cosa manca? Io credo che manchi il passaggio fra occuparsi dei poveri e occuparsi del povero, singolo, con un nome e un cognome. Una persone alla quale è nobile garantire un pasto caldo e un posto dove dormire, ma che è di più, che ha bisogno di più di un po’ di cibo e di un letto. Quante persone, quanti di noi, operano nel loro piccolo per dare sollievo e speranza a queste persone; ma quanti di noi, io per primo, si limitano a servire un pasto o a dare un letto senza neanche sapere il nome delle persone che hanno davanti, la loro storia, i loro problemi e necessità. E allora, forse, è proprio dare un senso alla vita di queste persone il compito difficile che abbiamo davanti.

La nostra città, la nostra comunità, ha tutti gli strumenti per assolvere a questo compito. A patto di sconfiggere l’indifferenza, che è sempre in agguato anche nei posti più ospitali, ma anche l’autocompiacimento nel vedere quel tanto che stiamo facendo senza concentrarsi su ciò che potremmo ancora fare.

Quanto resta della notte?

Mi capita in questo periodo di svegliarmi la notte. Al buio, senza niente da fare.

Le prime volte vivevo con rabbia e fastidio questa novità. Con il passare dei giorni, invece, mi sono abituato e ora questa situazione mi sembra una riproposizione del periodo che stiamo vivendo. E questo in qualche modo mi dà addirittura speranza.

Il buio, infatti, ci scava dentro e ci insegna a fare spazio alla luce, a sfruttare ogni spiraglio. È quando il buio è forzato che ci basta un tenue accenno di colore per ricominciare a vedere i contorni e per orientarci di nuovo. A riprendere speranza.

Il buio ci dà anche la consapevolezza della nostra limitatezza, perchè, nell’impossibilità di guardarci attorno, riusciamo meglio a guardarci dentro.

I nostri occhi, pur nell’ambizione della luce, sanno adattarsi all’oscurità. Anzi, sanno adattarsi all’oscurità proprio perché ambiscono a tornare alla luce. È fondamentale questa ambizione, per non arrendersi al buio. “Sentinella, quanto resta della notte?”, recita un versetto del libro del profeta Isaia messo in musica in modo magistrale da Francesco Guccini nella canzone ‘Shomer ma mi-llailah’.

“La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato. Sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato.” Quale migliore descrizione di questo periodo delle parole del profeta rese poetiche per dargli la veste di canzone. Un periodo buio, nel quale si aspetta l’arrivo del giorno e nel quale lo scorrere del tempo è sempre uguale a sé stesso.

E, oggi come allora, a tenerci in piedi, a vegliare nell’attesa della luce, non è una risposta alle nostre preoccupazioni, che probabilmente non c’è. A tenerci in piedi è un domanda, ‘un notturno grido, che chiederà’: sentinella, quanto resta della notte?

Una data speciale

Quella del 30 novembre è una data per me molto importante per tanti motivi, locali e globali.

Il 30 novembre, infatti, si festeggia Sant’Andrea, patrono della mia città di Empoli. E’ una tradizione, ormai da molti anni, che alla parte religiosa, con la Messa in Collegiata concelebrata dai sacerdoti di tutte le parrocchie, si affianchi un’altra parte che è sì civile, ma che mantiene molti legami con il significato religioso della giornata. Durante la Messa solenne, per esempio, è usanza ormai più che secolare che il sindaco doni alla Chiesa alcuni ceri che verranno poi utilizzati per le celebrazioni liturgiche; un modo per simboleggiare il legame fra il potere temporale e il potere spirituale, che sono e devono essere distinti, ma che sicuramente operano meglio per il bene comune se sono legati da rapporti di stima e di fiducia.

Dal 1994, inoltre, nel giorno del Santo Patrono, il Comune è solito assegnare un attestato di benemerenza a persone, gruppi, associazioni che si sono distinti nel campo della cultura, delle arti, del lavoro, dello sport, della politica o della solidarietà. Nella delibera che istituì questo riconoscimento, l’Amministrazione comunale scrisse le motivazioni della sua creazione, con queste parole: “Pescatore in Galilea, Andrea fu il primo, insieme al fratello Pietro, a seguire Cristo che volle fare di loro dei “pescatori di uomini”. Intitolare al Santo protettore di Empoli e alla sua vocazione il riconoscimento ufficiale dei meriti acquisiti nei confronti della comunità significa, pertanto, invitare a proseguire l’impegno, a non cambiare mestiere, anzi a renderlo sempre più alto e nobile arricchendolo continuamente di significato e passione. Significa rafforzare sulla riva dell’Arno, come lungo le sponde del mare della Galilea, un senso profondo di identità civile e l’orgoglio di appartenere ad una comunità che, glorificando chi si impegna per lei, esalta in realtà tutta se stessa.

Quest’anno il sindaco ha deciso di assegnare questo premio “agli operatori, donne e uomini, che lavorano all’interno dell’ospedale ‘San Giuseppe’ e che quotidianamente, personale sanitario e non, si sono impegnati e si impegnano tutt’ora nella lotta al Covid-19″. Nelle parole della motivazione si legge: “Per il coraggioso e generoso impegno nello svolgere la propria professione durante la grave emergenza generata dalla pandemia da Covid. L’amministrazione comunale ha voluto riconoscere il S. Andrea d’Oro nel giorno del Santo Patrono 30 novembre 2020 come simbolo di infinita gratitudine da parte di tutta la comunità.”

Ma quella di oggi non è un data importante solo per la mia città, ma anche per la Regione nella quale vivo, la Toscana. Il 30 novembre 1786, infatti, Pietro Lepoldo di Lorena, Granduca di Toscana, promulgò una riforma penale con la quale il Graducato, primo stato al mondo, aboliva la pena di morte. A partire dal 2000, per questo motivo, la mia Regione celebra in questo giorno la Festa della Toscana. Quella di Pietro Lepoldo è una decisione della quale mi sento orgoglioso, perchè fece del territorio nel quale vivo un esempio di giustizia e di progresso, ma della quale sento forte anche la responsabilità di essere in qualche modo degno di quella legge così importante e di renderla attuale per le tante sfide che anche questo tempo porta con sè dal punto di vista della tutela e della promozione dei diritti umani.

Last but not least il 30 novembre 1987 nasceva il Vides, Volontariato Donna Educazione e Sviluppo, l’Organizzazione non governativa grazie alla quale a partire dal 1996 ho avuto la possibilità di fare esperienze di volontariato internazionale in Ungheria, Kenya, Brasile, Angola e Mozambico. Se penso adesso, a distanza di tanti anni dal primo incontro, a cosa è stato ed è il Vides per me, fra le tante, tantissime cose, direi prima di tutto che ha rappresentato e rappresenta ‘una proposta’, un’opportunità che non si è mai imposta, ma che ha trovato il suo posto nella mia vita, tanto da segnare molte, quasi tutte, le scelte che ho fatto dopo averlo conosciuto. Una proposta di impegno, di protagonismo, di coraggio, anche, soprattutto nel lasciare le mie certezze dell’epoca per fare una scelta ‘controcorrente’ di vivere le proprie vacanze provando a dedicarle agli altri. Il risultato di quella scelta è stato sempre, negli anni, la consapevolezza che non mi era stato tolto nulla, ma che anzi ero stato profondamente e completamente arricchito, senza alcun merito particolare e che le mie piccole e grandi imperfezioni si erano unite a quelle degli altri per diventare un bellissimo strumento di vera e propria salvezza, forse anche per gli altri, di sicuro per noi stessi che le vivevamo.

Il 30 novembre, insomma, non è proprio un giorno come tutti gli altri: è un giorno che mi ricorda che possiamo essere ‘pescatori di uomini’, promuovendo la pace e i diritti umani, nel nostro vivere quotidiano, certo, ma con la consapevolezza che è anche con il nostro impegno che si può costruire un mondo più giusto e fraterno.

La saggezza è nell’essenzialità

Tutte le persone ‘sagge‘ che conosco, e ho la fortuna di conoscerne alcune, quelle equilibrate, consapevoli del mondo che li circonda e del loro ruolo all’interno di questo, tutte queste persone, dicevo, pur estremamente diverse fra di loro, sono accomunate da una caratteristica: quella di vivere in una condizione di essenzialità. Una essenzialità che non è necessariamente sinonimo di povertà: certo, fra di loro ci sono sacerdoti o religiosi/e che hanno fatto la scelta di non arricchirsi di beni mondani, ma ci sono anche persone che vivono del loro lavoro, che hanno una famiglia e che sono in una situazione di tranquillità dal punto di vista economico. Per essenzialità, in questo senso, intendo dire la capacità di andare alla sostanza delle cose, senza essere schiavi del superfluo. Conoscendole più a fondo mi sono persuaso che sia proprio in questo aspetto che risiede la loro saggezza, una qualità che li rende capaci di guardare il mondo con gli occhi di chi non ritiene di saper già tutto ma con la curiosità di chi è affascinato dalla possibilità di nuove scoperte.

La bellezza di queste persone, di conseguenza, sta nel fatto di vivere una vita piena, che è piena, degna di essere vissuta, non perchè assomigli in qualche modo a quella del Mulino Bianco, senza problemi e piena di sorrisi con i denti bianchi, ma perchè portata avanti, anche nei momenti di difficoltà, con la voglia di starci dentro, alla vita, con la capacità di accogliere non solo la gioia, ma anche la prova. Una vita vigile e attenta, non concentrata su se stessi, ma aperta agli altri, con la consapevolezza che è nel farsi prossimo alle persone che abbiamo attorno che si ama maggiormente anche noi stessi.