Leggerezza

“Prendete la vita con leggerezza, chè leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.”

ITALO CALVINO – Lezioni americane

L’incertezza, il senso di precarietà e di impotenza. L’isolamento forzato, l’impossibilità di vedere parenti e amici con la libertà alla quale eravamo abituati. Giornali e tg che, per larga parte, ci parlano della drammaticità del momento elencando i numeri progressivi dei morti e dei posti occupati delle terapie intensive.

Non possiamo sicuramente dire che in questi mesi non abbiamo argomenti per avere quel macigno sul cuore di cui parla Italo Calvino. La spensieratezza è ormai per molti un ricordo quasi sbiadito, del quale riusciamo a provare soltanto una malinconica nostalgia.

Non è il momento della frivolezza, i problemi del presente e purtroppo anche quelli che si prospettano per il futuro sono tali che non avere pensieri sarebbe probabilmente sintomo di stupidità.

Eppure oggi più di sempre abbiamo bisogno di leggerezza, non, appunto, nel senso di superficialità, di un inutile isolamento dal mondo e dalle sue difficoltà, ma riuscire a ‘vedere le cose dall’alto’, riuscendo a non farsi schiacciare.

Già, ma come? Non ho ricette nè soluzioni, ma mi vengono in mente due attività che per me si stanno rivelando utili.

Abbiamo appena detto che le notizie che ci vengono date in questo periodo vertono solo su un unico argomento, non come se fosse il più importante, come effettivamente è, ma come se fosse l’unico di cui occuparsi. Bene, non è così. Certo, guardandoci attorno anche oltre l’argomento Covid, non è che ci siano decine di notizie di cui rallegrarsi. Ma personalmente ho notato non soltanto che se abbiamo voglia di cercare altro riusciamo ogni tanto a trovare qualche ‘buona notizia’, ma anche che soltanto leggendo e approfondendo altri argomenti, anche non necessariamente edulcorati, riusciamo a rimettere nella giusta dimensione, sicuramente importante, ma non esclusiva, il ‘tema centrale’ del momento.

La seconda attività che a me ‘fa bene’ è quella di continuare a fare le cose che mi piacciono e che si possono fare nonostante la limitatezza del periodo: leggere, per esempio, o scrivere. Ma anche tenere i contatti con gli amici, seppure certo con modalità diverse rispetto a prima. E’ vero, sono attività che facciamo ormai da un anno e che ormai spesso ci hanno stancato. Ma, almeno per me, mantenere il contatto con le cose che amo fare mi dà la dimensione di un tempo che va avanti, certamente in modo diverso rispetto a prima, ma con gli stessi punti di riferimento e passioni.

Io però sono fortunato: ho un lavoro che mi consente di mantenere alcune relazioni sociali, ho degli hobby che danno continuità alle mie passioni congiungendo in qualche modo ciò che ero con ciò che sono. Ci sono tante persone che questa fortuna non ce l’hanno, che non hanno modo di coltivare relazioni perchè per loro il distanziamento è un obbligo di sopravvivenza e hanno degli hobbies che non possono praticare. Ci sono situazioni, poi, nelle quali davvero il peso di questo momento, dal punto di vista delle sue conseguenze, sanitarie ed economiche, è davvero troppo grande per poter alzare lo sguardo verso qualsiasi diversivo. In questi casi, davvero, non esistono soluzioni preconfezionate. Sono le situazioni nelle quali non basta l’individuo, ma serve una comunità.

Forse sta proprio qui la leggerezza di cui parla Calvino. Una leggerezza che non è la stupidità di chi disconosce la gravità del periodo, ma di chi riesce a planare dall’alto sui problemi, restando sopra, affrontandoli senza farsi schiacciare. Riuscire a non farsi schiacciare dalla realtà, per capacità o per bravura, consente due azioni imprescindibili in questo momento: quella di riuscire ad immaginare e a intravedere un punto di approdo e a vedere le situazioni nelle quali il macigno è proprio peso e c’è bisogno di qualcuno che condivida lo sforzo. Planare dall’alto, in questo senso, significa non chiuderci in noi stessi, ma riuscire a guardarci attorno, come hanno indicato anche Papa Francesco e il presidente della Repubblica nei lori discorsi di fine ed inizio anno.

Il tempo della semina

Quando ieri ho scritto il post concentrandomi sulla parola ‘unione’, non era ancora andata in onda l’intervista che Papa Francesco ha concesso al vaticanista del TG5 Fabio Marchese Ragona.

Ascoltandola stamattina, però, ho ritrovato, ovviamente espressi in maniera molto più chiara ed efficace di quanto avessi fatto io, alcuni dei concetti che avevo provato a sviluppare.

Ognuno di noi ha il diritto di avere il proprio punto di vista sulle varie situazioni, ha detto il Papa, e questi possono essere anche diametralmente opposti, fa parte della natura umana, ma oggi è il momento di ‘giocare’, di lavorare per l’unità. Oggi, in sostanza, non possiamo permetterci divisioni.

Bello, ma come si fa a riconoscere chi lavora per l’unità e chi per la divisione? In alcuni casi probabilmente è semplice, in altri decisamente più complesso. Ascoltando le sue parole, io credo che Francesco abbia fornito un indizio per scoprire sia gli uni che gli altri: ha invitato infatti a non anteporre il proprio interesse personale a quello collettivo e incitato ad utilizzare la parola ‘Noi‘ piuttosto che ‘Io’. Chi non è capace di dire ‘Noi’, ha detto rafforzando il concetto, non è all’altezza della situazione.

Se, come sempre, tutta la sua intervista mi è sembrata estremamente efficace e carica di valori, uno dei punti più alti è stato sicuramente quando, chiudendo questo argomento fondamentale, quello dell’unità, il Papa ha argomentato che “oggi è il momento della semina“, non della raccolta. E’ stata un’immagine veramente significativa, perché la semina richiede la scelta del tempo giusto, ma richiede anche pazienza e fiducia nel futuro. Chi semina sa che non tutto è nelle sue mani, può arrivare una gelata fuori stagione e rovinare il raccolto, ci possono esserci piogge eccessive oppure non esserci del tutto, ma colui che semina scommette comunque nel domani, fiducioso nel fatto che arriverà il momento della raccolta.

Riportando questo messaggio ai politici, ma anche ad ognuno di noi, il significato è chiaro: questo è il momento di essere uniti, chi pensa di speculare adesso sull’incertezza di molti è completamente fuori strada. Solo in questo modo possiamo avere la speranza che arrivi il tempo in cui potremo raccogliere ciò che oggi abbiamo seminato.

Unione

“L’unione fa la forza.”

Proverbio

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Molti dei fatti di questi giorni, dalla crisi post elettorale negli USA alla paventata e probabile crisi di governo in Italia, indicano con chiarezza quanto la divisione, l’accentuazione delle differenze portata alle estreme conseguenze, produce spesso soltanto ulteriore caos e quasi mai un effettivo miglioramento delle condizioni di partenza.

Certo, al giorno d’oggi, con il prevalere e talvolta il dilagare degli individualismi personali e nazionali, parlare di ‘unione‘ può apparire una cosa da deboli, da persone senza spina dorsale. Ma io credo invece che sia l’unica strada per rimetterci in carreggiata e riprendere il cammino. Unione come capacità di mettere insieme, di valorizzare i punti comuni più che ciò che divide, il dialogo più dello scontro, il confronto, anche animato, più dell’autocelebrazione.

Viviamo in un continente che, con tutti i difetti visibili e al netto anche di quelli più nascosti, ha fatto, nel tentativo di unire, lo sforzo culturale, economico e politico più importante degli ultimi trent’anni. Chi ha voluto e contribuito a crere l’Unione Europea lo ha fatto consapevole della distruzione provocata dalle due guerre mondiali, con i loro bombardamenti, le lacerazioni, le centinaia di migliaia di morti, le deportazioni; lo ha fatto quindi nella forte convinzione che quei fatti non dovessero ripetersi, che l’Europa dovesse essere teatro di pace e di libertà e non di guerre e dittature.

Io non sono d’accordo con chi descrive l’epoca attuale paragonandola a quella di metà degli anni ’40 del secolo scorso: basta vedere le immagini o leggere qualche testimonianza di quel periodo per capire che la nostra situazione attuale, per quanto sicuramente precaria e drammatica, non è paragonabile al disastro di quei giorni. Eppure, pur con differenze notevoli, oggi come allora è necessario ritrovare le forze e le motivazioni per una ripartenza, per una rinascita.

Basta fare riferimento alla saggezza popolare per riconoscere che ‘l’unione fa la forza’, che quando siamo fragili e smarriti è solo insieme ad altri che troviamo le energie per sentirci più forti.

Chi ha ancora qualche dubbio provi a dare un’occhiata al video qua sopra e si chieda in quale personaggio si riconosce di più: nel militare che dorme, nel motociclista spazientito o nella coppia che litiga, in chi si protegge dalla pioggia o in chi cerca una strada alternativa? Oppure nel bambino che, all’inizio sfiorando il ridicolo, si mette a spingere l’albero stimolando la partecipazione di tutti e rendendone possibile lo spostamento? Qualunque sia il personaggio preferito sono evidenti due cose: che è sempre necessario qualcuno che prende l’iniziativa e che smuove gli altri dall’inerzia e che, soprattutto, per portare a termine l’impresa c’è bisogno dell’aiuto di tutti.

Responsabilità

“La responsabilità è ciò che attende fuori dell’Eden della creatività.”

NADINE GORDIMER

Scrittrice, premio Nobel per la Letteratura 1991

La ‘responsabilità’, nel suo significato letterale, è la possibilità o la capacità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento. Guardando indietro all’anno appena trascorso e provando a fare una facile previsione sul periodo che abbiamo davanti, possiamo dire che, seppur avessimo conosciuto questa parola e in buona parte fossimo stati già abituati a viverne il significato profondo, forse per la prima volta da decenni siamo stati costretti a dargli un significato univoco e collettivo: questa volta davvero il mio comportamento può avere conseguenze dirette sulla vita degli altri e il loro sulla mia.

Non è stato facile capire e far capire l’importanza delle protezioni individuali, sopportare i periodi di chiusura, sopravvivere ai colori dell’emergenza che stanno regolando la nostra possibilità di uscire e di avere una vita ‘sociale’ fuori dalla mura domestiche. Ci sentiamo fragili, impotenti, costretti ed impediti.

Eppure, dopo ormai dieci mesi nei quali abbiamo visto la parola responsabilità come il contrario di ‘libertà‘, forse oggi ci rendiamo conto che la prima è il miglior alleato della seconda, è l’unica strada per tornare ad essere realmente liberi.

La consapevolezza che il mio comportamento può avere un’influenza decisiva sulla vita degli altri ci ha fatto anche scoprire interconnessi, proprio nel periodo di più grande distanza fisica. Questa situazione è stata ben sintetizzata da Papa Francesco, quando ha detto che dalla pandemia e le sue conseguenze possiamo uscire soltanto insieme e non da soli.

Adesso a tutte le responsabilità dei mesi scorsi se n’è aggiunta un’altra, ugualmente importante: quella di vaccinarsi, quando sarà possibile, per proteggere noi e gli altri. Anche in questo caso il nostro comportamento avrà un impatto non solo sulle nostre singole esistenze, ma anche su quelle degli altri.

Sarebbe bello, e siamo ancora in tempo per riuscirci, se questo tempo così difficile e carico di inquietudine ci lasciasse la capacità di farci carico gli uni degli altri, in particolaredei più fragili, di coloro che hanno bisogno di aiuto.

Sarebbe bello se il ritorno alla libertà, che tutti auspichiamo e che sicuramente prima o poi arriverà, non fosse solo il ‘bomba libera tutti’ per una, seppur salutare, ubriacatura di spensieratezza, ma portasse con sè la consapevolezza ormai acquisita che la responsabilità è una dei cardini della convivenza civile e il fulcro dello sviluppo etico e morale di una comunità.

Il potere di un abbraccio

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Un abbraccio vuol dire “tu non sei una minaccia. Non ho paura di starti così vicino. Posso rilassarmi, sentirmi a casa. Sono protetto, e qualcuno mi comprende”. La tradizione dice che quando abbracciamo qualcuno in modo sincero, guadagniamo un giorno di vita.

Paulo Coelho – Aleph

Dando una lettura veloce agli ultimi messaggi ricevuti sul telefono ho verificato quanto, ad occhio e croce, più della metà finiscano con un gesto di affetto descritto a parole e, fra questi, “un abbraccio” sia senz’altro il più gettonato. Il primo pensiero che mi è venuto leggendoli è che le parole, specialmente quelle scritte, sono le ultime ad abbandonare le vecchie abitudini: se ci viene imposto, riusciamo in qualche modo a cambiare i nostri comportamenti, ma quelli a cui siamo più legati e che ci danno piacere, restano nei nostri pensieri, li continuiamo ad associare a qualcosa di bello e ad utilizzarli nelle nostre espressioni.

E’ quasi un anno, ormai, che non ci abbracciamo. Non lo facciamo assolutamente più fuori di casa, con gli amici e con i parenti ‘non congiunti’. Ma riusciamo spesso a farlo solo superando qualche disagio e preoccupazione anche dentro le mura domestiche. All’inizio di questa pandemia ci siamo detti, probabilmente più per autoconvinzione che credendoci realmente, che il distanziamento che ci veniva imposto era soltanto fisico, che non avrebbe influito più di tanto sul modo di approcciarsi fra di noi, sulle nostre relazioni. Il tempo invece ci ha ben presto dimostrato che il distanziamento, lo dice la parola stessa, crea distanza e la alimenta. L’uomo, anche se talvolta tendiamo a dimenticarcene, non è una macchina, che è programmata per abituarsi ad alcuni cambiamenti e che, soprattutto, non prova emozioni. Un anno di distanza forzata e di contatti ‘filtrati’ hanno provocato un cambiamento profondo nei nostri comportamenti e nella nostra psiche e spesso hanno portato tante persone ad isolarsi e ad accentuare alcune difficoltà di relazione.

Per chi come me è una persona ‘fisica’, che tende a dimostrare materialmente e con il contatto diretto i propri sentimenti, questo periodo è stato una vera tortura; ma del resto, ormai, anche coloro che generalmente ‘mantenevano le distanze’ ammettono sconsolati che il contatto fisico non è più così superfluo. Manca. Manca tremendamente, perché l’abbraccio è l’espressione più universale, generalizzata e autentica di affetto, di amore. E un sentimento senza espressione, inutile negarcelo, perde un bel pezzo della propria spontaneità.

La pandemia ci ha portati a sentirci dentro ad una perenne minaccia, impauriti, fragili, tanto che a molti questi mesi ‘fra parentesi’ sono sembrati addirittura non vissuti.

E’ per questi motivi che spero che uno dei regali più belli del nuovo anno sarà quello di tornare ad abbracciarci, ad aprirci agli altri sentendoci protetti e accolti. E’ solo così che potremo riprendere effettivamente a vivere e forse, piano piano, anche a recuperare un po’ del tempo perso.

Perchè in fondo è proprio vero che “nell’abbraccio – ciò che è stato spigolo, linea interrotta, groviglio – diventa di nuovo, come per miracolo, cerchio perfetto.”

Nuovi cittadini

Preso da un momento di sentimentalismo, probabilmente scaturito da questo periodo festivo, il governatore della Liguria, Giovanni Toti, ieri ha postato le immagini dei nuovi nati nelle province della sua Regione dando loro un cordiale benvenuto. Finalmente un bel messaggio da parte del governatore, dopo le incredibili gaffe delle scorse settimane, come quella sugli anziani ‘non indispensabili’, riferita ai tanti over 70 morti a causa del covid-19.

Un benvenuto ai nuovi ‘arrivati’, che però non è passato inosservato al capogruppo della Lega in consiglio regionale, il quale ha prontamente ribadito che “non si può definire nè ligure nè italiano chi nasce sul territorio regionale o nazionale da genitori stranieri.” Una frase che ha suscitato polemiche ma che purtroppo rappresenta la realtà dei fatti, oggi, nel nostro Paese.

Nonostante l’impegno di tante persone, movimenti, associazioni, si pensi per esempio alla campagna “L’Italia sono anch’io”, i nostri parlamentari non sono mai riusciti a trovare i numeri sufficienti, all’interno dell’assemblea legislativa, per approvare un cambiamento normativo che garantisse la cittadinanza ai bambini nati da genitori stranieri residenti in Italia da un determinato periodo di tempo.

Ad oggi, quindi, il consigliere regionale Stefano Mai, questo il nome del capogruppo della Lega nell’assemblea ligure, ha tristemente ragione. C’è da augurarsi, ma mi permetto di avere qualche dubbio a riguardo, che la polemica che la sua affermazione ha provocato riesca a riportare al centro del dibattito politico un tema così importante.

Personalmente continuo a pensare che il riconoscimento della cittadinanza a chi nasce in Italia da genitori stranieri che risiedono da tempo nel nostro Paese rappresenti un passo fondamentale per la crescita serena di questi bambini in condizioni di uguaglianza rispetto ai loro coetanei. Tale riconoscimento, fra l’altro, costituirebbe anche l’antidoto migliore per contrastare pericolose derive razziste e quella sensazione di frustrazione e di isolamento che può portare alcuni giovani, una volta cresciuti, a sentirsi esclusi da qualsiasi percorso di inclusione e a coltivare, nelle peggiori situazioni, un sentimento di rabbia e di rancore nei confronti di una società che, ai loro occhi, li ha messi ai margini.

Al capogruppo Mai, che parla della necessità di “difendere le nostre tradizioni e la nostra identità“, vorrei chiedere a quali si riferisce, visto che io, per esempio, italiano per tutto l’albero genealogico, mi sento parecchio lontano dalle tradizioni e dall’identità del leghista medio.

Ammesso che non si riferisca alle varie ampolle contenenti l’acqua del Po di lontana leghista memoria, che ormai, fortunatamente, incontrano le simpatie di qualche buontempone, vorrei tranquillizzare Mai dicendogli che l’identità di un popolo si misura spesso con la sua capacità di confrontarla con quella degli altri e che, restando all’argomento, sarà molto più semplice mostrare le nostre tradizioni e la nostra identità ad un bambino facendolo sentire parte di una comunità che tenendolo forzatamente e inspiegabilmente fuori da questa.

Quello della cittadinanza è un tema troppo importante e complesso per banalizzarlo con slogan, frasi fatte e tutto il resto dell’armamentario populista. La cittadinanza si concretizza con il pieno riconoscimento dei diritti civili e politici: credo sia giunto il momento, e a dire la verità penso che sia giunto da tempo, per fare finalmente un dibattito libero e aperto su quali siano i requisiti che una persona deve osservare per poterne godere. Sarebbe forse l’occasione nella quale politici come il capogruppo Mai ci potrebbero spiegare come mai un bambino nato in Italia e che qui crescerà, studierà e affronterà la propria vita non può ambire al pieno riconoscimento dei propri diritti.

Costruttori del domani

Questo è il tempo dei costruttori. I prossimi mesi rappresentano un passaggio decisivo per uscire dall’emergenza e per porre le basi di una stagione nuova.” Sono queste le parole che più mi hanno colpito fra quelle che ha pronunciato ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel corso dell’abituale discorso di fine anno.

Per molti non è stato difficile cogliere in questa affermazione un avvertimento e un consiglio nei confronti di chi in questo momento così complesso sembra che voglia avventurarsi e provocare una crisi politica ‘al buio’. Io, oltre a questa importante sottolineatura politica, ho colto in queste parole anche un invito e uno stimolo a tutti i cittadini, che poi sono coloro ai quali viene rivolto il discorso di fine anno, affinché diano il meglio di sé per superare questo momento difficile e costruire un futuro più roseo e solido.

Il costruttore è colui che ha il coraggio di fare un progetto, di immaginare un domani e scommette sulle proprie e altrui forze per realizzarlo. E’ colui che non si accontenta di ciò che ha, ma che sa farlo fruttare, che utilizza il proprio lavoro e le proprie risorse per creare qualcosa di cui poi potrà trarne i benefici. Il costruttore è spesso, quindi, un’ottimista, che sa vedere uno spiraglio di luce anche in un periodo buio. E’ soprattutto uno che si mette al lavoro, che non sta con le mani in mano o, peggio, affacciato alla finestra a guardare gli errori degli altri.

Ci vuole un coraggio doppio, oggi, ad esserlo. Perchè la situazione è difficile come mai lo era stata negli ultimi decenni. E perchè in questo periodo si notano di più quelli che distruggono rispetto a coloro che costruiscono. La politica, come spesso succede, è lo specchio della società, e basta guardarla con un occhio appena interessato per capire come oggi frutti di più ‘stare a guardare’ chi governa, a qualsiasi livello, ed evidenziarne, sicuramente in modo legittimo, le magagne e gli errori, rispetto a mettersi a lavoro e dare il proprio contributo. E se questo vale per la politica, vale sicuramente anche nella vita quotidiana: lo si vede nell’irrequietezza con la quale da tanti vengono vissute le faticose ma indispensabili limitazioni della libertà personale, lo si nota anche nell’individualismo egoista con il quale, da una minoranza, certo, ma pur sempre numerosa, viene affrontato il tema dei vaccini e della loro funzione.

Nelle parole di Mattarella ho ritrovato alcuni concetti espressi qualche giorno fa da Papa Francesco, quando diceva che questo non è il tempo di chiuderci in noi stessi, di ripiegarsi, ma di guardarci attorno e di dare una mano a chi sta peggio di noi. “Il fratello che soffre ci appartiene”, ha detto il Papa, intendendo che chi è nell’indigenza e nel dolore ‘fa parte della nostra famiglia’, è parte di noi. Una frase impegnativa e bellissima che dovrebbe responsabilizzare e far riflettere tutti, credenti e non.

Immaginare un domani, non piangersi addosso, avere uno sguardo attento alla sofferenza degli altri e sostenere ed essere protagonisti di una solidarietà attiva: sono questi i cardini di una ripartenza, un altro vaccino che, così come quello ‘reale’, può farci superare questi tempi difficili.

Vaccini, che fare?

E’ in corso in queste ore un dibattito pubblico sull’opportunità di vaccinarsi contro il Covid-19, sugli effetti collaterali e sull’eventualità di rendere obbligatoria questa vaccinazione. Questo dibattito mi ha lasciato sbalordito, perché personalmente non ho il minimo dubbio sul fatto che mi vaccinerò appena possibile e anche perché molte delle motivazioni addotte da chi manifesta perplessità e dubbi mi sembrano poco veritiere, per non dire, in alcuni casi, persino risibili.

Sono convinto che molti di quelli che in queste ore si scagliano contro la campagna vaccinale non hanno visto da vicino il potenziale distruttivo di questo maledetto virus; non lo hanno visto in azioni nei confronti di parenti ed amici, non lo hanno combattuto all’interno di un reparto ospedaliero. Credo non possa essere altrimenti, perchè mi sembra incomprensibile che, di fronte ad una sciagura di queste dimensioni, si possa continuare a fare distinzioni e sottigliezze.

Mi fido della scienza e credo che il vaccino, seppur sviluppato molto rapidamente, abbia realmente affrontato e superato le varie tappe previste dai protocolli internazionali. Certo, se penso ad alcune affermazioni terrorizzate e terrorizzanti sui suoi effetti collaterali, mi viene da pensare che chi esprime certe considerazioni non abbia mai dato un’occhiata al ‘bugiardino’ di molti dei medicinali che vengono utilizzati a tonnellate ogni anno e che posso anch’essi avere, almeno a livello teorico, degli effetti devastanti.

La mia sicurezza nell’utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per combattere il coronavirus e la mia poca propensione al dialogo nei confronti dei cosiddetti no vax nascono probabilmente anche dal fatto di essere stato diverse volte in Africa e dall’aver visto con i miei occhi quanto intere popolazioni vorrebbero avere accesso ai vaccini e alle cure che, invece, vengono loro drammaticamente precluse.

Alla luce di tutto questo, istintivamente, ma anche razionalmente, mi viene da sostenere con forza l’obbligo di vaccinazione per tutti, fatta eccezione ovviamente per coloro che hanno particolari fragilità che li rendono non idonei a questa procedura.

Eppure, nonostante questa convinzione profonda, credo anche che in questo periodo storico così complesso lo Stato, insieme al sacrosanto diritto e dovere di non cedere le proprie prerogative, compresa quella, se necessario, di limitare la libertà individuale, debba anche fare tutto il possibile per non alimentare le divisioni già esistenti e per non provocare lacerazioni profonde su temi così sensibili. Credo, insomma, che lo Stato possa e debba utilizzare la propria autorità solo quando abbia fatto tutto il possibile per esercitare, evidentemente senza risultato, la propria autorevolezza.

Quindi, prima di rendere obbligatoria la vaccinazione, situazione che pure potrà rendersi necessaria, la priorità di questi mesi, nei quali i vaccini arriveranno scaglionati e di conseguenza la loro somministrazione, dovrà essere quella di creare, sviluppare e lanciare una grande campagna di comunicazione, che racconti la sicurezza di questa soluzione, la sua importanza per proteggere sè stessi e gli altri e la debolezza delle argomentazioni di chi sostiene il contrario. Solo successivamente ed eventualmente, ma a quel punto con tutta la legittimità possibile, si potrà procedere con azioni maggiormente coercitive.

E’ una luce, non una magia

Se c’è una descrizione del Natale che non sopporto è quella che lo definisce una ‘magia’. Che non c’è niente di magico in questo giorno lo vediamo benissimo quest’anno, con le lucine degli addobbi che sembrano un forzato e imposto impulso all’allegria e alla spensieratezza.

Il Natale non porta con sè una magia, ma lo stupore di un Dio che si fa piccolo e fragile, lo ‘scandalo’ del Re dei re che nasce in una mangiatoia; è la luce che squarcia le tenebre del peccato.

La nascita di Gesù è un cambiamento radicale nella storia del mondo, una svolta che ci chiede un impegno concreto, vero, quotidiano, continuo. Il giorno dopo, infatti, è già santo Stefano: dalla gioia al martirio il passo è breve, dalla vita alla morte. Anche in questo caso, niente lucine.

Diciamoci la verità, per molti di noi essere testimoni di Gesù non comporta nessun rischio, se non di qualche sberleffo. Eppure a chi ieri ha contemplato la Vita, viene chiesto oggi di celebrare e di proteggere le vite, qualsiasi esse siano, soprattutto le più fragili e indifese. E forse è proprio questo lo scandalo del Natale, oggi: in un periodo nel quale ci viene chiesto, quasi imposto, di stare lontani e isolati dagli altri, il Natale ci chiede di trovare il modo di avvicinarci ancora di più, di farci prossimi, di avere cura degli altri.

Leggevo proprio ieri della bellissima iniziativa del tampone sospeso: a Milano, Palermo e altre città, alcune persone, sostenute da associazioni locali, hanno messo a disposizione piccoli o grandi risparmi per chi dovrebbe fare il tampone ma non può permetterselo. Un’iniziativa semplice, anche simpatica che ci insegna concretamente come il dovere di proteggerci non ci dà il diritto di pensare solo a noi stessi e che anche in un periodo di isolamento forzato è possibile trovare il modo di aiutare gli altri. Senza riflettori puntati addosso, ma facendoci semplicemente illuminare dalla Luce.

Il futuro esiste ancora

Ho letto con molto interesse un’intervista a Marta Cartabia, presidente emerita della Corte Costituzionale e persona di grande spessore umano e intellettuale. Fra gli argomenti trattati mi ha interessato soprattutto il punto in cui ha parlato, riferendosi in particolar modo ai giovani, di emergenza esistenziale. Una realtà, ha detto, in questo momento messa in secondo piano dalla più urgente e devastante crisi sanitaria, ma che non può essere dimenticata, se vogliamo evitare disastri ancora più grandi di quelli attuali.

Emergenza esistenziale come senso di insicurezza e di precarietà che impedisce di guardare al futuro, “di avere pensieri lunghi”. Mi capita di vedere questa insicurezza in mia figlia e in diversi ragazzi e ragazze che ho la fortuna di incrociare in questo periodo difficile: una difficoltà ad immaginare un domani diverso rispetto a quello segnato dalla paura e dalla lontananza, magari non libero dalle preoccupazioni, in un rewind impossibile, ma neanche ripiegato sull’oggi senza squarci di luce.

Alla domanda su quali possano essere le soluzioni e gli strumenti per combattere questa emergenza esistenziale, la presidente Cartabia, facendo riferimento alla Divina Commedia e al rapporto fra Virgilio e Dante, con il primo che accompagna e guida il Sommo Poeta nella ‘valle oscura’, ha sottolineato l’importanza della presenza di qualcuno “più avanti nel percorso”, più esperto, che possa accompagnare i giovani in questo sentiero buio. Credo davvero che noi adulti abbiamo una responsabilità enorme nei confronti dei giovani, soprattutto oggi: quello di mostrare una finestra illuminata che in qualche modo indichi il cammino.

Un compito fondamentale nel seminare speranza ce l’ha sicuramente la scuola, luogo di formazione e di crescita, ma anche di essenziale confronto fra pari.

Ma la scuola, pur importante, da sola non basta. È essenziale mostrare ai giovani il passaggio dall’io al noi, dalla preoccupazione per il ‘mio’ futuro all’impegno per una crescita collettiva, che non lasci indietro nessuno. E in questo dobbiamo riscoprire l’importanza della solidarietà, di non delegare agli altri il sostegno a chi ha meno. Se un merito questa pandemia lo ha avuto, è stato quello di mostrarci la nostra fragilità, di tutti, nessuno escluso. Questo tempo non sarà vissuto invano se ci avrà insegnato ad avere una sensibilità maggiore, dovuta all’incertezza vissuta, nei confronti di chi è più fragile, perché è anche camminando insieme ad altri che si riprende il cammino.

Non è questo il momento di nascondere le difficoltà e le paure, ma dobbiamo essere credibili nel trasmettere la certezza che questa situazione finirà, che ne usciremo. In fondo anche questo è avvento, attesa, è non perdere la speranza in una nuova nascita, in una ‘dritta via’ finalmente ritrovata. Che ci vedrà sicuramente diversi, ma in piedi e pronti a riprendere il cammino.