Volontà

“Solo chi fortemente vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della sua volontà.”

ANTONIO GRAMSCI

Quando abbiamo parlato di futuro abbiamo detto che questo esiste e si definisce nel momento in cui abbiamo dei progetti, degli obiettivi da realizzare. Sono infatti quei progetti ed obiettivi che collegano il nostro passato al futuro e che riescono a fare in modo che la nostra vita non sia limitata ad un eterno presente. In quella occasione abbiamo parlato anche della difficoltà oggi di collegare ciò che eravamo a ciò che vorremmo essere, a causa della cesura provocata dal virus. Il suo arrivo improvviso e dirompente, infatti, ha trasformato le nostre vite, facendoci vivere in un presente purtroppo condizionato quasi esclusivamente da questa emergenza sanitaria, che ci omologa e ci rende difficile dare una coerenza al percorso delle nostre vite, così diverse, quelle sì, le une dalle altre.

Oggi più di sempre, quindi, abbiamo compreso quanto avere uno scopo dà senso alla nostra esistenza. Ma, come ci insegna Gramsci, avere uno scopo, per quanto necessario, non basta: serve anche e soprattutto una ferrea volontà di raggiungere il nostro obiettivo. Solo in quel modo, argomenta l’uomo politico e filosofo sardo, si possono mettere in campo quei passi, quelle azioni necessarie per la sua realizzazione. Sì, delle azioni, perchè la volontà implica una determinazione fattiva, un movimento concreto e coerente: non basta una semplice aspirazione o una teorica manifestazione di intenti. Serve mettersi in movimento.

La volontà, così declinata, è essenziale anche e soprattutto in un momento complesso come quello che stiamo vivendo. Prendo ancora indegnamente in prestito le parole di Gramsci, il quale, in una sua celebre argomentazione parlava di “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà.” “Penso, in ogni circostanza, – scriveva – alla ipotesi peggiore, per mettere in movimento tutte le riserve di volontà ed essere in grado di abbattere l’ostacolo. Non mi sono fatto mai illusioni e non ho avuto mai delusioni. Mi sono specialmente sempre armato di una pazienza illimitata, non passiva, inerte, ma animata di perseveranza.”

Pensare all’ipotesi peggiore non è il segno di un pessimismo senza speranza, ma dell’accortezza necessaria e indispensabile per non farsi trovare impreparati di fronte ad una difficoltà inaspettata. Allo stesso la pazienza operosa, non quella di chi si siede aspettando la fine delle intemperie, ma quella di chi lavora fiducioso nell’importanza del proprio agire e nella propria perseveranza, è determinante per non vivere di illusioni, che molto spesso si trasformano in delusioni, e per farsi guidare da una speranza possibile.

Volontà, pazienza, perseveranza. Non sono anche oggi le qualità da inseguire e da far proprie?

Rinnovamento

Proprio un anno fa, il 30 gennaio 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò quella provocata dal Covid-19 un’emergenza globale: non era più, quindi, un problema che riguardava solo la Cina, ma il mondo intero. Da lì a qualche settimana, l’11 marzo, la stessa Oms la definì una pandemia.

Non è necessario spiegare quanto questo anno abbia cambiato le nostre abitudini e le nostre vite: che la diffusione del Covid sia stata, e che purtroppo sia ancora, un’emergenza ‘globale’ è dimostrato dal fatto che non esiste Paese al mondo, e probabilmente ben poche persone, che non abbia rimodulato il proprio stile di vita per renderlo funzionale alla sua progressiva sconfitta.

Siamo arrivati ad un punto di questa traversata tale che, almeno io, più ancora della fatica dei mesi trascorsi fra precarietà, distanziamento e paura, sento il peso dell’incertezza e dell’imperscrutabilità di quelli che abbiamo davanti. Questo peso è sicuramente dovuto alla situazione in sè, alla perdita delle nostre abitudini, alla conta dei morti, ai timori legati ad una ripresa economica che, più che incerta, appare impossibile. Ma ancora di più questo peso, è dovuto alla consapevolezza di non avere gli strumenti, le chiavi giuste, per poterlo sostenere.

Un anno fa stavamo faticosamente e lentamente uscendo da una crisi economica che si protraeva da circa dieci anni: la più importante, dicevano i commentatori e gli analisti, dai tempi della Grande Depressione. Eppure, nonostante questo, l’impatto generale di questa enorme difficoltà non era stato così profondo come quella che stiamo vivendo. Sicuramente uno dei motivi è legato al fatto che i morti legati a quella crisi, che pure ci sono stati, non sono stati forse così tanti e sicuramente così evidenti come quelli provocati dalla situazione attuale. Ma uno dei motivi, io credo, è legato al fatto che quella situazione non aveva messo in discussione i fondamentali del nostro vivere quotidiano. Certo, ci sono state anche in quel caso decine e decine di migliaia di persone che hanno perso il loro lavoro, con conseguenze facilmente e terribilmente immaginabili. Ma la vita quotidiana in generale, quella della popolazione presa tutta intera, senza concentrarsi sui casi singoli, è andata avanti più o meno allo stesso modo.

Adesso no. Adesso siamo davanti ad un cambiamento forzato che, se non vogliamo soccombere oltre che dal punto di vista sanitario anche da quello sociale, esige un rinnovamento.

Rinnovamento è una parola diversa da cambiamento, perchè contiene anche una valutazione qualitativa che l’altra parola, invece, da sola, non ha. Rinnovare vuol dire rendere nuovo, migliorare. Sì, migliorare, perchè rinnovare non vuol dire dare un’imbiancatina ad un edificio vecchio, ma renderlo nuovo dalle fondamenta.

Abbiamo davanti l’esempio, desolante, che la nostra classe politica ci sta dando sulla nuova, ennesima, crisi di governo: piccoli calcoli di bottega, decisioni prese sulla convenienza del momento, persone che pur di restare attaccati alla poltrona farebbero e direbbero il contrario preciso di quanto avevano sostenuto fino a qualche giorno fa.

‘Di cosa ti meravigli?’, mi potrebbe essere chiesto, ‘è sempre andata così.’

No. Non è sempre andata così. Perchè rarissime volte il Paese si è trovato in una situazione del genere. In negativo, certamente, con una situazione tremenda come l’abbiamo descritta. Ma anche come opportunità, vista la quantità enorme che l’Unione Europea ha messo a disposizione dell’Italia: una quantità così ingente non si vedeva dai tempi del piano Marshall.

Ho già detto altre volte che questo momento non è paragonabile a quello della seconda guerra mondiale: per contesto, situazione globale, caratteristiche. Ma se vogliamo proprio farlo, quel paragone, ci accorgiamo rapidamente come la classe politica, uscita dalla guerra e da vent’anni di dittatura, seppe mettere da parte divisione ed interessi di parte, creare quel miracolo civile che è la nostra Costituzione e collaborare alla gestione delle risorse del piano Marshall. Seppero, insomma, rinnovarsi.

Ecco, in questo senso vorrei vedere una similitudine con quell’altro momento drammatico della nostra storia. Nella capacità di rendersi nuovi, di lasciare i vecchi difetti, di smentire gli stereotipi sugli italiani che anche stavolta stiamo incredibilmente confermando.

Un rinnovamento vero forse non sarebbe in grado di farci superare la pandemia con un salto, ma ci darebbe la forza e la convinzione di poterlo fare. Lentamente, forse, ma di sicuro con parecchia fiducia in più.

Coscienza civica

Solo ora, ormai a fine giornata, riesco a dare una lettura un po’ più approfondita al giornale di oggi. Mi colpiscono in particolare tre argomenti: ovviamente le notizie sulla crisi di governo, l’appello, giunto da più parti, di destinare parte dei vaccini contro il Covid-19 ai Paesi poveri e il pronto cambiamento di posizione del neo presidente Usa Biden sul clima rispetto al suo predecessore. Cosa hanno in comune queste tre notizie in sè così diverse? Mi hanno colpito proprio perché hanno in comune la sottolineatura dell’importanza di una coscienza civica.

Essere nel bel mezzo di una crisi di governo, oggi, in un periodo di piena pandemia richiede ai leader politici non solo un supplemento di responsabilità e di rapidità nell’individuazione della soluzione, ammesso che ci sia, ma anche la disponibilità a mettere da parte la propria gratificazione personale di una vittoria su tutti i fronti per ricercare una soluzione dignitosa per tutto il Paese e non per una parte sola.

L’appello di destinare una parte dei vaccini anche alle persone che vivono nei Paesi poveri ha il senso di non far trionfare, anche in questa crisi mondiale, chi ha una maggiore disponibilità economica, ma di tenere conto, per quanto possibile, delle necessità e dei bisogni di tutta l’umanità e di garantire, almeno per una volta, l’uguaglianza di tutti gli uomini.

La posizione del presidente Biden sul clima, infine, risveglia finalmente nel Paese più potente del mondo la consapevolezza che le sue scelte determinano non solo il proprio futuro ma anche quello di buona parte del pianeta.

Avere una coscienza civica, quindi, significa essere in grado di fare una valutazione morale del nostro agire, ma rapportato non solo al nostro ordine personale, ma a quello della comunità nella quale ci troviamo a vivere.

E’ evidente che molti di noi non possono essere protagonisti diretti della soluzione dlla crisi di governo, nè possono direttamente agire per una equa distribuzione dei vaccini o, meno che mai, per influire sulle decisioni di politica ambientale del presidente americano. Su questi temi possiamo solo seguire, informarsi e sperare. Ognuno di noi però può avere una coscienza civica all’interno della comunità in cui vive e può quindi fare una valutazione morale del proprio agire, rapportandolo al benessere della propria comunità. Questa coscienza può esplicitarsi in diversi ambiti: da quello ambientale, per esempio nell’impegno ad un corretto smaltimento dei rifiuti, a quello sanitario, oggi particolarmente importante nell’osservanza delle disposizione di sicurezza per la prevenzione del Covid, da quello economico a quello della solidarietà sociale.

Avere una coscienza civica, infine, significa sentire addosso la responsabilità di non essere un’isola sganciata dal resto del mondo, ma parte di un’umanità che dovrebbe riuscire a riconoscersi.

Futuro

“Ecco a cosa serve il futuro: a costruire il presente con veri progetti di vita.”

MURIEL BARBERY

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Prendendo in prestito le parole ironiche e crude, ma estremamente attuali, del filosofo e scrittore francese Paul Valery, possiamo dire che “il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.”

Il futuro, essendo strettamente legato allo scorrere del tempo, non esiste come concetto statico, ma è collegato al presente che, a sua volta, dovrebbe avere una forte connessione con il passato. Il problema grande di questi tempi è quello che il presente è fortemente, se non completamente, scollegato dal passato, a causa di una cesura improvvisa e radicale che ha fatto crollare buona parte dei ponti di collegamento. Il presente che stiamo vivendo, pur essendo ancora la conseguenza di scelte fatte precedentemente, è da molti punti di vista condizionato e ipotecato dal fatto storico ‘unico’ della pandemia.

Ecco, quindi, che il futuro, davvero, non è più quello di una volta. E neanche la nostra vita, di conseguenza, perchè questa ha un senso, in buona misura, nel momento in cui siamo capaci di costruirla, non fermandosi al momento attuale; un passo alla volta, certo, ma almeno immaginandosi dei traguardi e delle tappe intermedie. Il futuro di una volta è quello in cui tanti, soprattutto i giovani, speravano in un miglioramento della propria condizione, qualunque essa fosse; quello di oggi è quello nascosto dalla nebbia di un presente precario.

Ed è proprio da qui che dobbiamo ripartire, dalla nebbia. La nebbia confonde i contorni e nasconde l’orizzonte, fa sembrare tutto indefinito e uguale. Per riprendere a camminare dobbiamo in qualche modo far diradare la nebbia.

Sì, ma come? Ri-cominciando a fare progetti. Nel mio lavoro i progetti sono la base dalla quale parte tutto il resto. Ma perchè sono così importanti, oggi? Perchè i progetti non sono un tuffo carpiato nella piscina vuota di un futuro invisibile, ma costituiscono le fondamenta sulle quali ricostruire i ponti di collegamento che sono andati distrutti: analisi dei bisogni, obiettivi concreti e misurabili, risorse chiare e definite.

E’ solo facendo progetti che possiamo riprenderci la vita con una serenità figlia, non di una sciocca inconsapevolezza, ma di una speranza incerta ma credibile. Di una speranza con la ‘s’ maiuscola, come dicevamo ieri. E’ faticoso e complesso vincere la nebbia, ma quando si dirada, come per miracolo, ricompare il futuro.

Speranza

“Anche se il timore avrà sempre più argomenti, tu scegli la speranza.”

SENECA

Una cara amica, ieri, mi ha insegnato che esistono due tipi di speranza, quella con la ‘s’ minuscola e quella con la maiuscola.

Quella con la minuscola è legata a situazioni che hanno buone possibilità di realizzarsi in relazione al fatto che io compia determinati comportamenti. Per esempio, se domani ho una importante riunione di lavoro, il mio auspicio che questa vada bene ha buone possibilità di essere esaudito se oggi impiego una buona parte della mia giornata a prepararmi sugli argomenti dell’incontro. E’ con la ‘s’ minuscola, mi ha spiegato, perchè la mia attesa che avvenga qualcosa di bello è fortemente condizionata dalle mie possibili azioni.

Viceversa, la speranza con la ‘s’ maiuscola è quella che quasi prescinde dalla mie azioni e che davvero mi mette in una situazione di attesa, un’attesa non sempre e non troppo desiderata.

Quante volte in questi mesi la quotidiana conta dei morti, il timore del possibile contagio, la preoccupazione per le conseguenze economiche di questa situazione ci hanno impedito di immaginarci un futuro. Non è stato e non è facile, inutile nascondersi, ma, come in tutte le cose della vita, c’è almeno un risvolto positivo: abbiamo finalmente dovuto, ‘collettivamente’, fare esperienza della nostra impotenza, debolezza, fragilità. E forse, lo spero, sarà proprio da questa consapevolezza che troveremo una nuova energia.

Il fondatore della comunità di Sant’Egidio ed ex ministro, Andrea Riccardi, ha scritto che “la speranza profonda viene dalla convinzione che la famiglia degli uomini e dei popoli non è stata abbandonata da un amore più grande.” E’ la visione di un credente, certamente, che ha la ‘speranza certa’ del fatto che le nostre tribolazioni e barcollamenti sono seguite da vicino e accompagnate da Qualcuno che non ci lascia da soli. A me questa frase piace, oltre che per il riferimento a Dio, anche per il fatto che declina questo concetto in una chiave universale: non parla della speranza mia e di tre o quattro miei amici, ma di quella dell’umanità, passata, presente e futura.

Attenzione, però, quella con la ‘s’ maiuscola ci mette davanti alla nostra impotenza, ma non giustifica la nostra eventuale inoperosità. Non essere, da soli, il rimedio ad un problema, non vuol dire che non possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo alla sua soluzione. Non stando sotto l’albero ad aspettare che arrivi dall’alto, ma mettendoci in cammino insieme a quelli che sono sulla nostra strada.

Giudizio

Ho da sempre la grande fortuna di lavorare, fare volontariato o più semplicemente avere a che fare con i giovani. Conosco bene quindi la loro capacità di essere spiazzanti, e talvolta anche sprezzanti, nei giudizi. Definitivi, molte volte. Incontrandoli spesso, però, resto preoccupato dalle difficoltà che incontrano ad ‘avere giudizio’: non un giudizio inteso come sinonimo di responsabilità di immaginare gli effetti delle loro azioni e quindi di prendere le decisione adeguata, ma preso nel suo significato letterale, e quindi più profondo, di capacità individuale di valutare o definire.

E’ molto difficile, in questo periodo di bombardamento di migliaia informazioni, ma quasi sempre dello stesso tipo, avere una capacità individuale, non omologata, non diversa per punto preso, ma eventualmente diversa perché ragionata. Perché individuale, che nasce dall’individuo. E quando si riesce ad averla è ancora più difficile condividerla, diffonderla, difenderla. Anche i ragazzi e le ragazze più intelligenti e reattivi, ormai, dicono chiaramente che esporsi e differenziarsi è sempre più difficile.

Nel momento in cui tutto è omologato e non ci si fa più a ‘smarcarsi’, la conseguenza è che anche “valutare“, dare valore, e “definire“, descrivere con parole precise, diventa estremamente complicato.

Tutto da buttare in un’unica risposta, anch’essa omologata e che vale per tutti? Assolutamente no. Parlando con i giovani, ne ho trovati anche tanti che sanno dare valore ai propri valori, senza aspettare l’autorizzazione degli altri, e che li sanno raccontare, definire, con chiarezza e precisione.

Nonostante questo, però, io credo che siamo di fronte ad un grande bisogno di autonomia e di libertà. Una sfida educativa, direi, nel senso della necessità profonda di ‘tirare fuori’ dai giovani le loro ricchezze e le loro individualità. I loro talenti. Una sfida che nasce dall’ascolto, prima ancora che dall’insegnamento, dalla fiducia nei loro confronti e non nella ricerca di un inutile proselitismo.

Il nostro Paese, così come quasi tutti quelli del Vecchio continente, sta invecchiando ogni giorno di più. Un motivo in più per non potersi proprio permettere pochi giovani fatti con lo stampino.

Mancanza

“Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto nei sei pieno?

MARIO LUZI

I primi tempi del mio lavoro come operatore nei centri di accoglienza per migranti, mi meravigliavo, spesso anche con un certo fastidio, che le persone accolte si lamentassero in continuazione di non aver niente da fare, un lavoro, un’occupazione, ma che poi, nello stesso tempo, passassero buona parte del loro tempo sdraiati sul letto o a girellare nel piazzale antistante la struttura di accoglienza.

E’ stato solo con il passare dei mesi e con l’approfondimento della loro conoscenza che ho capito che la loro, prima ancora che di lavoro, di relazioni, di autonomia, era soprattutto una mancanza di senso, di un motivo reale per vivere quel determinato tempo in quel determinato luogo. Nessuno di loro aveva scelto di venire a vivere a Empoli, o nessuno dei loro compagni di camera, come prima non avevano scelto i propri compagni di viaggio. Il loro essere in quel luogo in quel momento era solo una lontana conseguenza della loro decisione iniziale di partire dal loro paese di nascita e soprattutto l’esito di una serie di casualità. Ecco quindi che l’obiettivo del nostro lavoro, una volta acquisita questa consapevolezza, diventava non tanto e non solo quello di aiutarli ad acquisire una formazione specifica, ad apprendere la lingua italiana ed eventualmente a trovare un lavoro, ma soprattutto scoprire e definire insieme il senso del loro essere qui.

Nel libro Memorie di una Geisha c’è una frase molto bella, della quale sono riuscito a comprendere bene il senso solo in questi mesi, che dice: “Al tempio c’è una poesia intitolata La Mancanza, incisa sulla pietra. Ci sono tre parole, ma il poeta le ha cancellate. Non si può leggere La Mancanza, soltanto avvertirla.”

In questo anno, ormai, di limitazione della libertà, di perdita di antiche abitudini radicate e di molte relazioni sociali, di distanziamento forzato, di tempo abbondante, ma spesso inutile, a disposizione ho capito finalmente il significato profondo di quella assenza di senso che avevo solo intravisto nei ragazzi con i quali avevo lavorato.

E’ una mancanza che fa perdere i punti di riferimento, che fa sperimentare un senso forte di inutilità e di precarietà, che fa capire quanto l’uomo sia definito come essere umano solo all’interno di una comunità che si riconosce e lo riconosce come tale.

Purtroppo ho abbondantemente superato la fase nella quale anche io ho pensato che da questa crisi saremmo potuti uscire migliori, perchè l’esperienza di questi mesi ha in non pochi casi dimostrato il contrario.

Sono però ancora dell’idea che possiamo in qualche modo utilizzare questo periodo per acquisire qualche anticorpo che ci consenta non solo di riempire questa insufficienza di senso, ma anche di saper vedere e riempire anche quella degli altri che ci vivono intorno, provando a testimoniare vicinanza e un po’ di calore.

E in questo senso mi colpiscono sempre molto le parole di Papa Francesco, così semplici da sembrare quasi banali ad una prima lettura, ma che poi diventano incredibilmente operative, non perdendo la loro semplicità, quando si provano a mettere in pratica. Nel messaggio pubblicato ieri per la 55° Giornata mondiale per le comunicazioni sociali, il papa ha sottolineato con forza l’importanza di andare a vedere con i propri occhi le varie situazioni che avvengono vicino o lontano da noi, per provare ad incidere personalmente nel loro cambiamento. Il messaggio è chiaramente rivolto principalmente ai giornalisti, ma è riferibile ad ognuno di noi: andare a vedere con i propri occhi richiede la fatica di mettersi in cammino e di non credere soltanto a quanto ci viene raccontato, di essere disponibile a modificare la propria idea iniziale, ma soprattutto di sentire la responsabilità, una volta vista la situazione, di testimoniarla agli altri e di assumere un impegno personale al suo cambiamento. Quante situazione di difficoltà, di disagio, economico, sociale, spirituale, morale ci sono vicino a noi? Ebbene, per riempire quella mancanza di senso, che ci fa sentire inutili e colmare quella degli altri, la strada è quella di non voltare la testa dall’altra parte, adesso anche con l’alibi della pandemia, ma di farsi carico, di incontrare quelle situazioni, di essere testimoni di prossimità e protagonisti di un cambiamento.

Prevenzione

Sapere.it

“Prevenire è meglio che curare.”

Poche volte come in questi mesi di pandemia ci siamo confrontati così continuamente con il significato più profondo della parola prevenzione. Perchè se è vero che evitare una malattia è sempre meglio che curarla, è ancora più evidente il fatto che prevenirla è l’unico modo per scampare da un male per il quale non esistono cure.

Letteralmente, ‘prevenzione’ significa il complesso di azioni volte a diminuire un rischio. ‘Complesso di azioni’: in fondo basta leggere la definizione del dizionario per capire che non è un’azione banale. In questo anno ormai, ci siamo resi conto di quanto limitare un rischio porta spesso con sè la conseguenza di aumentarne altri. L’isolamento è sicuramente la soluzioni migliore, soprattutto per le persone anziane, per evitare il contagio: ma l’isolamento prolungato per mesi porta alla solitudine, alla depressione, alla dispersione dei rapporti sociali. Non prolungare il lockdown e le chiusure indiscriminate ha consentito di non distruggere ulteriormente il nostro tessuto economico, ma dal momento della riapertura il numero dei malati è di nuovo aumentato. E di conseguenza quello dei morti. Il ricorso massiccio alla didattica a distanza è stato una scelta di responsabilità nei confronti dei giovani e soprattutto delle persone più fragili che vivono con loro, ma ha portato dei danni enormi, in termini di rallentamento dello svolgimento dei programmi scolastici, e di conseguenza di apprendimento da parte degli studenti, e soprattutto in termini di perdita di legami e di opportunità.

Bastano questi tre esempi per spiegare il senso della complessità delle azioni. Prevenire non comporta scelte nè uniche, nè semplici. Richiede l’individuazione di priorità e una coerenza e continuità delle azioni.

Speriamo almeno che il fatto di esserci dovuti confrontare con questa necessità in tempi drammatici ci aiuti a mantenerne e preservarne il valore anche in altri momenti.

Lungimiranza

“Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione.”

JAMES FREEMAN CLARKE

Due giorni fa il governo guidato da Giuseppe Conte ha ottenuto una risicatissima maggioranza, che forse gli consentirà di andare avanti ancora qualche settimana o qualche mese, ma che molto probabilmente non gli consentirà di essere forte ed efficace, come invece sarebbe richiesto dall’Unione Europea, al fine di poter spendere attentamente l’enorme mole di risorse prevista per fronteggiare la crisi economica e sociale provocata dal Covid-19, e come soprattutto si aspetterebbero i cittadini italiani.

Non potrà farlo perché chi ha provocato questa crisi di governo non è riuscito neanche a fare quello che la frase di Clarke indica come abituale nei politici, cioè guardare alle prossime elezioni: se Matteo Renzi e Italia Viva, infatti, dovessero affrontare il giudizio degli elettori da qui a poche settimane è molto probabile che raggiungerebbero percentuali da prefisso telefonico, usando una simpatica affermazione che Renzi stesso, da segretario del Pd, amava utilizzare nei confronti dei partiti cosiddetti minori.

Se la situazione in Italia non va affatto bene, non si può dire, guardandosi attorno, che nel resto del mondo vada molto meglio, con la Germania alle prese con la complessa successione alla quasi ventennale leadership di Merkel e gli Stati Uniti, giusto per limitarci a due esempi, che stanno faticosamente superando la fase di passaggio fra i due presidenti. Una fase che nelle ultime settimane è sfociata in ribellioni e azioni violente anche nei luoghi istituzionali, che hanno davvero fatto temere il peggio.

Se la politica vive momenti così difficili, con una credibilità vicina allo zero in larghe fasce della popolazione, è sicuramente per le svariate situazioni di malcostume delle quali si sono resi protagonisti alcuni esponenti. Ma lo è ancora di più, io credo, per il fatto che la politica è stata spesso vissuta e interpretata esclusivamente come il governo del quotidiano, del contingente, complici anche una informazione in perenne diretta e la diffusione capillare dei social network. Ecco quindi che se l’orizzonte temporale con il quale si misura l’efficacia delle politiche si abbassa al livello di pochi minuti o poche ore, è piuttosto normale che lo sguardo del politico medio non sarà neanche rivolto alle prossime elezioni, ma appena al prossimo sondaggio.

Eppure, proprio in questa fase avremmo bisogno di statisti, che abbiano il coraggio di rivolgere lo sguardo ad un futuro che vada oltre alla quotidianità; ne avremmo bisogno proprio oggi, quando l’idea stessa di futuro ci appare così lontana da sembrare quasi irreale.

La lungimiranza è la capacità di capire lo sviluppo di una situazione e di prevederne le conseguenze, sfruttandole o prevenendole a seconda dei casi. E’ tutto il contrario, quindi, dell’improvvisazione e del piccolo cabotaggio. Anche per questo abbiamo alle spalle e purtroppo anche di fronte a noi tempi difficili: perchè persone lungimiranti, persone che immaginano un futuro e si impegnano per costruirlo, sembra proprio di non vederle all’orizzonte.

Sobrietà

Si usa dire che è ‘sobrio’ colui che non si ubriaca, perchè la sobrietà è la caratteristica, la dote, di colui che sa usare con moderazione le cose di cui dispone. Si potrebbero fare tanti esempi di come l’uso saggio dei beni facilita la loro condivisione: se vado ad una festa e non faccio per niente caso al numero delle persone e alla quantità di cibo, rischio di mangiare più del dovuto e di mettere in difficoltà il padrone di casa; al contrario se alla stessa festa mi servo con moderazione faccio in modo che il cibo sia a disposizione anche di chi eventualmente si presenterà con un po’ di ritardo. Lo stesso tipo di esempio lo si può fare di chi egemonizza una discussione non lasciando agli altri la possibilità di esprimere la propria opinione e di chi, viceversa, ascolta cosa hanno da dire gli altri ed esprime la propria idea con forza e determinazione ma senza imporla. Passando dal micro al macro, è facile fare l’esempio dell’uso, abuso e spreco di cibo, spesso importato, dei Paesi ricchi a fronte della scarsità endemica, purtroppo ancora attuale, di una bella fetta di mondo.

La sobrietà, quindi, è l’esatto contrario dell’individualismo e marcia invece a fianco della giustizia. Anzi, potremmo dire che la sobrietà riesce ad essere un valore riconosciuto solo quando l’individualismo spietato lascia la strada alla cura dell’altro, ad un’attenzione al prossimo, specialmente quando questo è scartato dalla società.

Se pensiamo alla politica di oggi, ma anche a una parte rilevante del giornalismo, per non parlare di ciò che spesso leggiamo sui social network, ci accorgiamo di quanto sarebbe necessaria la sobrietà nei giudizi, nelle affermazioni, nelle prese di posizione. In una società nella quale l’idea migliore non è quella meglio argomentata ma quella urlata più forte, chi prova a ragionare e a provare le proprie convinzioni rischia di passare per debole e antiquato.

Lo spettacolo che la politica nazionale sta dando in questi giorni sembra per l’ennesima volta dimostrare il contrario, ma sarebbe bello se il drammatico momento che stiamo vivendo portasse almeno in dote una rinnovata capacità di mantenere il controllo delle situazioni, eliminando il superfluo e andando il più possibile all’essenzialità delle cose.